Alla Destra del padre

di Gianmarco Di Napoli per IL7 Magazine

In pochi lo conoscono con il suo vero nome, Teodoro Siciliano. Per tutti è “Teo Vivere Brindisi”, come la sua pagina Facebook che raccoglie oltre duemila follower. Da cinque anni Teo, quando finisce il turno, ancora con la divisa di lavoro, cerca l’inquadratura più suggestiva per augurare la buona notte o il buon giorno ai brindisini. Sono foto da innamorato perduto della sua città che ogni volta raccolgono centinaia di like e messaggi d’incoraggiamento a continuare. Teo non fa solo il fotografo: quando, salendo sino in cima al nuovo ponte trasparente del lungomare per uno scatto, si è accorto che i soliti imbecilli avevano imbrattato con i pennarelli e la pittura le vetrate, è andato a comprare il solvente e ha cancellato tutte le scritte. Ed è tornato a farlo ogni volta che i teppisti hanno ripreso la vernice, ingaggiando una battaglia tutta personale per il decoro e il rispetto della città. E tutti a scrivergli: “Bravo Teo, continua così. Tu sì che ami Brindisi, dovresti candidarti. Chi meglio di te”.

Teo, che è un bravo figlio, ci ha creduto davvero. Pensate che ingenuo, era convinto che per aspirare a diventare un consigliere comunale fosse sufficiente essere un serio lavoratore, un cittadino onesto e innamorato spassionatamente della propria città, uno che si mette a disposizione gratis dei concittadini, che non tollera il teppismo e lo scarso rispetto verso i beni comuni. Ed è tanto onesto che, accettando la candidatura che gli è stata proposta, ha pensato che non fosse giusto sfruttare la pagina da oltre 2.000 follower che tutti conoscono e sulla quale avrebbe potuto condurre la sua piccola campagna elettorale. Ne ha creata un’altra da zero, arrivando a malapena a 200 amici, con il suo nome e il suo cognome, perché quell’altra doveva continuare a rappresentare il suo amore per la città, questa esprimere le sue convinzioni politiche. E le due cose non andavano confuse.
Il 9 giugno, nel suo «appello» al voto, ha scritto: “Domani per me sarà un giorno speciale, capirò finalmente in quanti hanno dato peso a tutti i miei sforzi per la mia amata terra. Manca poco ragazzi, grazie anticipatamente a tutti coloro che crederanno in noi”. E’ stato l’ultimo post sulla pagina Facebook elettorale perché Teo ha raccolto in tutto sedici (16) voti. Lunedì mattina ha pubblicato un fotomontaggio spassoso con Valerio Staffelli di Striscia che gli consegna il tapiro e il commento “I risultati sono andati oltre ad ogni mia più rosea aspettativa, credevo di prendere solo 10 voti invece ne ho presi 16. Cinque anni di “Vivere Brindisi” sono serviti a qualcosa…

Ce ne sono tanti di piccoli grandi eroi della nostra quotidianità che i brindisini alle urne hanno scansato. Come Antonella Brunetti, la fatina dark che da anni salva gattini sperduti e che spesso combatte battaglie contro i mulini a vento affinché vengano riconosciuti i diritti e la dignità alle bestiole. Antonella ha raccolto un’ottantina di voti, più o meno il numero di mici che salva in un mese. Il 10 giugno non l’ha trascorso davanti ai seggi distribuendo saluti e strette di mano ma è stata impegnata in salvataggi plurirazze: arrivata in campagna per tirare fuori dai guai un gatto si è ritrovata a salvare una testuggine palustre che si era allontanata troppo dal suo laghetto.
Poveri illusi e sognatori, Teo e Antonella. Erano davvero convinti che il tanto sbandierato “cambiamento di Brindisi” potesse passare dall’eleggere al Comune gente come loro. No, cari miei, non sono l’altruismo e la generosità le virtù che convincono i cittadini al voto. Le preferenze vanno in altre direzioni: non vale niente promettere amore per la propria città. E’ necessario essere azzeccagarbugli, intrallazzatori, aum aum man, strizzatori d’occhi, navigati manovratori. E non fa niente che in passato si sia “caduti” in qualche incidente di percorso, più o meno grave, più o meno giudiziario. La gente dimentica in fretta, anche ai tempi di internet, quando ogni storia è resa immortale dal motore di ricerca.

Non vogliamo parlare di Giovanni Antonino, sul quale in questi giorni sono stati spesi fiumi d’inchiostro, e che risulta aver chiuso tutti i suoi conti aperti con la giustizia, lasciandone però in sospeso uno non secondario: due milioni di euro che dovrebbe versare (sentenza della Corte di Conti) al Comune di Brindisi per danni d’immagine provocati dalle sue note vicende giudiziarie. Non ha mai pagato e dunque le sue ambizioni di ritornare a Palazzo di città dalla porta principale sono state bloccate.
Desideriamo parlare invece del figlio Gabriele, il ragazzino di 26 anni addetto alla reception di una residenza sanitaria e “juventino sfegatato” che si è ritrovato catapultato all’improvviso sulla scena politica brindisina con il record «mondiale’ di 1.863 preferenze, il doppio di chiunque prima di lui avesse in passato totalizzato il massimo delle preferenze in Consiglio comunale. Aveva dieci anni quando i carabinieri portarono via il padre da casa in manette. Era rimasto lontano dalla politica: servizio civile, volontariato, la fidanzata, la Juventus. Un ragazzo dalla faccia pulita e dal sorriso simpatico. Ma poi l’irrefrenabile desiderio del padre di tornare a “prendersi Brindisi”, come ama scrivere sui social, lo ha travolto giorno dopo giorno, in un lento processo di metamorfosi in cui Giovanni Antonino si è “fuso” nel figlio trasformandosi in un’unica entità che ha il nome di Gabriele e gli scatti narcisistici del padre, in cui l’uno parla a nome dell’altro o usando il plurale che non si capisce se è perché parlino insieme o si tratta solo di un pluralia maiestatis. Arrivando al punto da scrivere, con dubbia ironia, che sulla tomba di Rossi scriveranno «candidato». Firmato Gabriele, ma tutto suo padre.
Ogni genitore ha sperato, almeno una volta nella vita, che i figli raccogliessero i successi che loro non sono stati in grado di ottenere. Sul piano professionale, in quello sportivo, persino in quello politico. Molti genitori, proprio per questa loro ambizione, che a volte diventa incontrollata, finiscono col compromettere le potenzialità dei figli, condizionandoli nelle scelte, stroncandone le reali attitudini, nel patetico tentativo di una rivincita che spesso si trasforma in una nuova, colpevole, sconfitta.

Gabriele rischia molto di più. Papà Giovanni avrebbe potuto legittimamente instradare il figliolo sulla via della politica, magari trasmettendogli insegnamenti che indubbiamente è nelle condizioni di dare e lasciandogli poi compiere il suo percorso di crescita da solo, partendo dalla gavetta e magari evitando di compiere gli errori commessi dal babbo.
E invece no. Ha preso il ragazzino e nel giro di pochi mesi lo ha trasformato in un collettore di voti, riannodando quei fili che l’autorità giudiziaria aveva spezzato e rimettendo in piedi certi meccanismi che si sperava fossero stati cancellati.
Creandogli un duplice danno: da un lato lo ha fatto ritrovare all’improvviso catapultato sotto i riflettori della notorietà (il recordman storico del Comune alla prima candidatura) senza che ne avesse né la struttura né le capacità. Ma grazie (e di questo il papà ne va pubblicamente orgoglioso) ai voti incamerati da Giovanni, tronfio del fatto che la gente non lo abbia dimenticato.
Dall’altro, e questo è l’aspetto più triste, ha accettato consapevolmente di far finire questo ragazzino dal volto pulito e che ovviamente non ha alcuna responsabilità del passato, nel tritacarne delle vecchie cronache giudiziarie che si sono riaperte una volta che il figlio dell’ex sindaco condannato per corruzione risulta il più suffragato della città e con numeri da guinness.
Antonino aveva tutti i diritti di rimettersi in gioco e se, come poi accaduto, in tanti hanno ancora il coraggio di fidarsi di lui, di riprendere a dedicarsi attivamente alla politica, dietro le quinte o su quel palcoscenico dal quale dimostra di non riuscire proprio a stare lontano. Ma il ragazzo no, non avrebbe dovuto trasformarlo nel suo surrogato. Per questo sarebbe la sua fortuna (quella di Gabriele, non certo dui Giovanni) se al ballotaggio Cavalera perdesse con Rossi e lui finisse a fare l’opposizione: del sindaco e del padre.