Charlie Gard: tra vita, etica e morte

Il caso di Charlie Gard, bambino britannico di 11 mesi affetto da una malattia genetica, sta dividendo le coscienze e non solo nel mondo scientifico. Per Charlie, i medici che lo curano, hanno chiesto di interrompere gradualmente il supporto medico artificiale che lo tiene in vita ricevendo l’ ok della Corte Europea dei Diritti umani. Proviamo a sentire alcuni pareri autorevoli su questa complessa vicenda umana. Il dottor Enrico Rosati è responsabile dell’ UTIN (Unità Terapia Intensiva Neonatale) presso l’ospedale Perrino e sono davvero tanti i genitori grati a lui e alla sua èquipe.
Dottor Rosati, nel reparto di terapia intensiva neonatale arrivano piccoli pazienti in condizioni gravi con un’alta probabilità di morte se le funzioni vitali non vengono sostenute da complessi supporti tecnologici e farmacologici. Cosa differenzia la maggior parte dei casi da lei trattati da quello del piccolo Charlie?
“I supporti di cui lei parla stabilizzano la malattia mentre le cure fanno il loro effetto. La maggior parte dei nostri piccoli pazienti, superata la prematurità, hanno aspettative di vita normale. A volte ci sono esiti che caratterizzano lo sviluppo del bambino ma raramente ci troviamo di fronte a malattie incurabili. In quasi tutte le situazioni alla fine del tunnel c’è la luce”.
La Corte Europea dei Diritti umani ha ribadito che i medici non possono sottoporre nessun essere umano a trattamenti che comportino delle sofferenze inutili. Cosa deve intervenire nei casi più disperati per poter stabilire il confine tra accanimento terapeutico e cure palliative?
“Stabilire quel confine non è facile. A volte ci ritroviamo ad essere accusati, dagli stessi colleghi, di accanimento terapeutico se rianimiamo un feto di bassa età gestazionale che manifesta segni di vitalità. Su questo tema c’è molto dibattito e spesso la decisione viene affidata al singolo medico che in quel momento ha in carico il piccolo paziente. Non ci sono regolamentazioni, come riferimento abbiamo la Carta di Firenze del 2006 che, comunque, non dà indicazioni precise sul tema. Alcune Aziende Sanitarie hanno convocato il Comitato Etico e hanno stilato delle raccomandazioni interne sull’atteggiamento da adottare. Nel mio reparto stabiliamo un confine tra cure e accanimento terapeutico quando non vediamo più una risposta clinica nel paziente. Non c’è nulla di codificato, ci affidiamo alla scienza ma anche alla nostra coscienza di uomini e padri”.
Cosa succede allora?
“Di comune accordo con la famiglia adottiamo ciò che definiamo la cura compassionevole. Creiamo un ambiente protetto per i genitori e, lì dove sono d’accordo, anche i fratelli. Affidiamo loro il piccolo perché possa spegnersi tra le braccia della mamma. Lo accarezzano e lo abbracciano accompagnandolo al momento estremo. Sono genitori coraggiosi che spesso ci ringraziano nonostante l’esito. Per questo non capisco le scelte dei genitori di Charlie. Noi sanitari, in accordo con i genitori, dobbiamo garantire la salute del piccolo ma fare anche i conti con il suo diritto a non patire. Bisogna sapersi fermare, saper dire basta”.
Il paziente in UTIN è assistito minuto per minuto, monitorato, sottoposto a molteplici esami mentre le sue condizioni vengono di volta in volta rivalutate. Che parte hanno i genitori in questa attesa angosciata?
“Quando i genitori arrivano sono consapevoli del fatto che è successo qualcosa di importante, di grave e si affidano a noi attraverso una serie di passaggi che prevedono il loro massimo coinvolgimento. Accessi al reparto, la raccolta del latte della mamma per nutrire il figlio e sentirsi partecipe alle cure, le foto ai piccoli da portare ai fratellini. Le regole di una sana comunicazione e relazione sono importanti, non tutti i genitori sono uguali e a volte la nostra umanità non basta. Credo che sia importante la presenza dello psicologo in reparto, soprattutto per la medicina dell’aria critica. Il nostro tecnicismo può rivelarsi insufficiente in una presa in carico veramente adeguata”. *** E a proposito di genitori abbiamo ascoltato il parere di Raffaella Centonze, presidente dell’Associazione di genitori di bambini nati pretermine “Insieme ai nostri bambini” fondata dal dottor Latini. Raffaella è la madre di una bambina nata pretermine che oggi ha 4 anni e mezzo e sta bene, nonostante la prognosi per lei fosse infausta. E’ una bimba pervasa da un’eccezionale energia vitale quanto sua madre.
Avrà sentito parlare del caso Charlie, cosa ne pensa?
“Intanto le dico che esperienze come questa ti cambiano la vita. Mia figlia alla nascita pesava 900grammi e le speranze di vita, e comunque di salute poi, erano quasi inesistenti. E’ rimasta ricoverata nel reparto del Dott. Rosati per 52 giorni. Quando sei davanti a quella incubatrice provi una serie di sentimenti contrastanti. Da una parte desideravo con tutta me stessa che mia figlia si salvasse, dall’altra mi sentivo in colpa come se stessi chiedendo qualcosa che andava contro natura. Mi risulta difficile comprendere, ma questo è solo un mio pensiero, tutti quei genitori che entrano in conflitto con i medici come se pretendessero la salvezza del loro figlio a tutti i costi. E’ come se li immaginassero infallibili ma poco disponibili, verso il loro figlio, ad usare quella infallibilità. E’ come se la gente non accettasse più che la morte sia la conseguenza della vita”.
Lei era davvero pronta a perdere sua figlia? A lasciarla andar via?
“Non so se questo è vero fino in fondo, però le dico che mi sentivo come in una bolla e mi percepivo come sdoppiata. Nel darmi coraggio mi percepivo come se stessi aiutando un’amica ad affrontare tutto quel dolore, questo mi faceva diventare più lucida e razionale nella gestione delle mie emozioni. Avevo accanto mio marito che condivideva con me ogni scelta, ogni responsabilità e ciò mi sosteneva in quanto mi ero ripromessa di fare, lottare e tenere duro. Per il resto mi affidavo a Dio. Quando arrivavo in ospedale prima di andare al reparto passavo dalla cappella e mi affidavo alla sua volontà”.
E con i medici e tutta l’équipe sanitaria che rapporto aveva?
“Sono stati grandi, la loro competenza eccezionale mi sembrava illuminata. Ero comunque pronta, con umiltà, ad accettare che non riuscissero a salvarla e ad interpretare la sua morte come qualcosa che interviene, naturalmente, per liberare dalla sofferenza. La morte può essere anche questo”.
Sua figlia adesso sta bene.
“Sì, non ha avuto esiti e ha un carattere forte come il mio. Un miracolo che mi vede grata. Per il giorno del suo primo compleanno non feci la solita festa ma organizzai un evento di beneficenza a favore dell’Associazione. Con i fondi aiutiamo le famiglie più bisognose ad affrontare le cure oppure compriamo attrezzature per il reparto. A volte mi ritrovo anche a combattere contro la diffidenza della gente verso le Associazioni, faccio anche questo nel vivere la mia gratitudine per quanto mi è accaduto”. *** Abbiamo infine ascoltato il parere del Dott. Luigi Vernaglione, Direttore della struttura complessa di Nefrologia dell’Ospedale Perrino che, oltre ad essere medico specialista, è laureato in Filosofia con particolari competenze in Bioetica.
Il Professore Enzo Pennetta, Docente di Scienze Naturali, dichiara che la sentenza Charlie Gard è una sentenza della società del post-umano perchè sancisce che la vita umana deve essere terminata qualora non possa produrre. Cosa ne pensa?
“Non concordo con questa definizione di post-umano. La vicenda presenta diversi snodi, uno è rappresentato dalla decisione di staccare la spina, l’altro dal trattare il bambino con la terapia sperimentale che, come si è appreso, non è mai stata tentata sugli esseri umani. Questo non mi sembra accettabile, è qualcosa che viola la sacralità della persona, sarebbe come andare oltre l’umanità trattando il bambino come cavia con una terapia dall’esito molto incerto. In filosofia morale nel dubbio ci si astiene”.
E per la decisione di staccare la spina?
“Seguendo lo stesso principio, in questo caso, il dubbio è creato dal non sapere con certezza se c’è sofferenza nel bambino, altresì vi è una certezza, che in quel piccolo essere c’è vita e quindi, nel dubbio, mi asterrei dallo staccare la spina. Lo manterrei in vita intervenendo, di volta in volta, sui sintomi conosciuti, con cure che siamo in grado di prestare”.
Quindi nella sentenza Charlie Gard c’è qualcosa di post-umano?
“Quando i giudici decidono, sul parere dei medici che hanno effettuato le consulenze giudiziarie, che per Charlie bisogna interrompere l’attaccamento alle macchine perchè dalla dimensione della cura si è passati a quella dell’accanimento terapeutico, definiscono il principio che la sofferenza deve necessariamente risolversi in un fine vita. Questa si può definire una sentenza del post-umano perché impedisce che la vita umana contempli la sofferenza”.

Maria Rita Greco per il7 Magazine