Dottor Gjoni: l’angelo del 118 di Brindisi arrivò dall’Albania

di Gianmarco Di Napoli per IL7 Magazine

Un cuore fermo che ricomincia a battere o smette per sempre. La partita è tutta qui e dura una manciata di secondi. Il massaggio cardiaco, il defibrillatore, un sottile filo che separa la vita dalla morte. Il tracciato non mente. Nel 2004, il sistema sanitario nazionale ebbe un sussulto quando si scoprì che a Brindisi era stato superato il muro del 50 per cento: più della metà dei cuori fermi erano stati riattivati. Si pensò a un errore, i numeri vennero ricontrollati. Ma il record, che andava persino oltre le medie europee dell’epoca, era stato raggiunto dai soccorritori del 118 di Brindisi. L’anno dopo, nel mese di febbraio, Piero Gjoni, era il medico di turno sull’ambulanza che arrivò a sirene spiegate al Pala Pentassuglia. La partita era finita, i riflettori già spenti, ma le luci degli spogliatoi no.

Il play della New Basket, Giovanni Bruni, un ragazzone di 24 anni, aveva avuto un arresto cardiaco ed era stato rianimato dal medico sociale della squadra, Dino Furioso. Ma una volta in barella, mentre l’ambulanza stava per partire, il cuore si era fermato un’altra volta. E sembrava la fine. “Gli diedi un pugno sullo sterno e iniziai a massaggiarlo, ma non dava alcuna risposta. Gliene assestai un altro e continuai il massaggio. Nel frattempo il defibrillatore era stato attivato: alla prima scarica, ancora nulla. Alla seconda ebbe un sobbalzo, spalancò gli occhi e mi chiese: dove mi state portando?”.

Il dottor Gjoni ricorda il ritorno improvviso alla vita di un ragazzo praticamente morto: “E’ stata forse la rianimazione più disperata che abbia mai compiuto”. Bruni oggi ha 36 anni e continua a giocare a basket. Pjer Gjoni, o dottor “Gionni”, albanese di Durazzo, è stato tra i primi ad essere reclutato nella pionieristica squadra di 26 medici, selezionati in tutta la provincia di Brindisi, per creare il team del 118. Fino all’estate del 2002 le ambulanze partivano dagli ospedali con un conducente, un infermiere e la barella. La loro funzione era quella di caricare vittime di malori o incidenti stradali e trasportarle al pronto soccorso più vicino. Gli interventi sul posto, soprattutto quelli di rianimazione, erano quasi inesistenti.

“Non avevamo le divise: andavamo in ambulanza con il camice bianco dell’ospedale, e neppure una postazione vera e propria, stavamo vicino ai telefoni pronti a ricevere le richieste di soccorso”, ricorda Gjoni. Era una squadra molto eterogenea composta da medici e infermieri che provenivano da esperienze diverse, alcuni non erano mai montati in ambulanza: “Anche i colleghi del pronto soccorso ci guardavano con un certo scetticismo, quasi come un corpo estraneo. Ma quando si sono resi conto di quanto possa fare un medico sull’ambulanza, hanno cambiato parere”. Anche nella vita di Gjoni c’è un prima e un dopo, proprio come per le decine di persone cui lui e gli altri angeli del 118 hanno dato una seconda possibilità. E una data, il 6 marzo 1991. Fino a quel giorno era stato un brillante pediatra nella zona di Kryevidh, nell’entroterra albanese, dove la strada asfaltata più vicina era a dieci chilometri. Aveva in carico 5.700 bambini, una cifra enorme.

“Erano sparsi in tutta la collina e c’era un tasso di mortalità altissimo”, racconta. “Le mamme andavano a lavorare in campagna e i figli venivano affidati alle nonne che li imbottivano di papaya per tenerli tranquilli. Sudati, bagnati, alcuni morivano nel sonno. In ogni famiglia c’erano otto-dieci figli e quando uno di loro non ce la faceva i genitori erano rassegnati: un albero non può mantenere tutti i frutti, mi dicevano”. Piero aveva 26 anni e mezzo ed era già il responsabile dell’ospedale rurale. “Andavo a lavorare a cavallo e le strade in inverno non erano praticabili per il fango. Cercavo di spiegare alle famiglie come curare i bambini, regalavo loro libri e termometri. Fotografavo i piccoli periodicamente per misurarne documentare la crescita”.

Questa era la prima vita del giovane dottor Gjoni. Nel frattempo aveva sposato Ledia Mikeli, laureata in Merceologia a Tirana. I loro nonni erano erano amici e avevano condiviso anche le persecuzioni politiche. Nel loro futuro ci sarebbe stata una vita senza dubbio di tenore più alto rispetto a quella dei loro connazionali. Ma senza libertà. L’Albania era soffocata dalla dittatura comunista. E così arriviamo al 6 marzo 1991, giorno in cui si chiude la prima esistenza di Pjer e inizia la seconda. Due anni prima era caduto il Muro di Berlino, il governo non riusciva più a tenere chi voleva fuggire in Italia: “Tutto il popolo di Durazzo andava verso il porto. Salutai mio padre e presi mia madre con me. Si faceva la fila per salire sulle navi, i militari sparavano raffiche di kalashnikov ma solo in aria. Per salire sull’Illiria, un vecchio mercantile, fummo costretti ad attraversare un’altra nave che era ormeggiata alla banchina: solo dopo sapemmo che nella stiva c’erano 2.700 tonnellate di tritolo per la fornitura biennale delle miniere. Rischiammo di saltare tutti in aria e con noi sarebbe saltato il porto. Eravamo in 3.600 su una nave che avrebbe potuto trasportare 500 persone. Mia moglie Ledia era rimasta a Tirana e per avvisarla che partivo per l’Italia le scrissi una lettera su tre ricette mediche e l’affidai all’ufficiale della nave che conoscevo”.

Nel momento in cui metteva piede a Brindisi, dopo 36 ore di viaggio, il dottor Gjoni tornava ad essere semplicemente il signor Piero. La sua laurea in medicina, la sua specializzazione in Pediatria, non avevano alcun valore legale in Italia. E lui lo sapeva bene. Era un rifugiato politico come tutti gli altri. E avrebbe rivisto l’Albania soltanto nove anni dopo, nel 2000. “Io e mia madre ci sistemammo su due cassonetti rovesciati vicino alla stazione doganale, ma quelli della Croce rossa cercavano un pediatra e i miei connazionali indicarono me. Lasciai mia madre e mi misi a lavorare nei soccorsi a quelle stesse persone che avevano effettuato con me la traversata”. Piero si sentiva medico ma non poteva esercitare, anche se aveva una piccola stanzetta nella parrocchia del Perrino che gli aveva concesso don Nino Lanzillotti. Qui visitava gli albanesi, grandi e piccoli.

Ma per sopravvivere, e studiare, servivano i soldi. E così andava a lavorare in campagna alla giornata, dava una mano in un cantiere di autodemolizione, faceva il meccanico. Insomma, non rifiutava alcun lavoro – anche i più umili. E nel frattempo studiava, andando in bicicletta alla Biblioteca provinciale. Voleva tornare a fare il dottore. Il 17 marzo 1997 il signor Gjoni fu di nuovo, anche per la legge italiana, il dottor Gjoni: laurea in Medicina con lode all’Università di Bari e assunzione in una clinica privata di Taranto. Quattro anni dopo ci fu anche la specializzazione in Virologia su cui aveva dirottato perché il suo professore barese non volle indirizzarlo verso quella Pediatria che aveva amato nella sua prima “vita”. Nel 2001 arrivò la chiamata del 118. In questi 15 anni di soccorsi in ambulanza, il dottor Gjonni non solo ha dimostrato di avere doto mediche straordinarie, ma ha conquistato l’affetto di migliaia di pazienti grazie alle sue doti umane. Nei concitati momenti dei soccorsi riesce a trasmettere serenità e dolcezza a chi sta male e a chi, intorno, è preoccupato.

Tra le tante lettere che la moglie Ledia custodisce gelosamente, c’è questa che fu pubblicata on line qualche anno fa: “Ti arrivano a casa 4 persone gentili e competenti del 118 che si rivolgono con tenerezza a tua madre novantenne e acciaccata. Un simpatico medico, il dottor Gjon che le si rivolge come se fosse la sua mamma e la tranquillizza e ha parole di comprensione per i familiari che non si aspettano da lui parole di conforto. E invece lui trova una parola gentile per tutti e alleggerisce la tensione e spiega quello che farebbe se fosse la sua mamma….invece la mamma è la tua, anziana e acciaccata. Sembra di avere incontrato un medico da film e invece siamo a Brindisi”.

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