I pescatori brindisini: rivoluzione antispagnola prima di Masaniello

di Giovanni Membola per IL7 Magazine

Il 5 giugno del 1647 da Brindisi prese vita una delle più importanti rivoluzioni popolari contro le vessazioni tributarie ed il malgoverno spagnolo. I moti insurrezionali brindisini anticiparono di circa un mese, e durarono più a lungo, rispetto a quelli più famosi avvenuti a Napoli capeggiati da Tommaso Aniello D’Amalfi, detto Masaniello, che portò all’insurrezione dell’intero meridione.
Dopo gli anni di dominazione veneziana, durante i quali vi fu una timida ma significativa ripresa sociale ed economica, nel 1509 l’intero Regno di Napoli passò sotto il dominio spagnolo di Ferdinando il Cattolico, una lunga egemonia durata 202 anni caratterizzata da pestilenze e malgoverni, tra crisi economiche e oppressioni fiscali nei confronti soprattutto della povera gente. La popolazione, già in forte miseria, veniva gravata da tributi sempre più alti, mentre i nobili ed il clero, esentati dalle imposte, vivevano tra privilegi, lusso e ostentazione.
Intervenne persino Padre Lorenzo da Brindisi, futuro Santo, che “impietosito dalle misere condizioni delle popolazioni del napoletano e indignato per le continue ingiustizie che si consumavano ai danni degli inermi, interruppe il viaggio alla volta di Brindisi, per portarsi in Ispagna, denunziare al re cattolico, Filippo III, il malgoverno del suo vicerè, Pedro Gyron, duca di Ossuta, e invocare opportuni rimedi. Il suo richiamo in patria e la sua prigionia nel castello di Almeida non valsero, tuttavia, ad attuire i mali, ormai endemici”.
Il malcontento esplose spontaneamente tra i pescatori del rione Sciabiche, il quartiere più rappresentativo della città, il 5 giugno del 1647. Nella Cronaca dei Sindaci di Brindisi la sommossa venne così raccontata: “fu la revoluzione nel Regno di Napoli, e precise in questa città, e il detto sindico (Ferrante Glianes) fu lapidato dal popolo, e fu pigliato da casa sua, e portato carcerato in una casa sotto la marina, dove lo trattennero tutto il giorno, e poi la sera lo mandarono libero in casa sua, e il capopopolo, o vero capopopoli, furono Donato, e Teodoro Marinazzo, e levarono le gabelle, non facendoli osservare come era di solito”.
Il 5 agosto fu eletto a sindaco un altro nobile, l’avvocato Benedetto Leanza, che nonostante fosse gradito al popolo stentò non poco a contenere le nuove sommosse. Infatti, secondo alcuni studiosi, gli episodi di Brindisi non avevano come unica necessità l’abolizione delle gabelle, ovvero le imposte per fare fronte alle spese di guerra, ma era rivolta contro la tirannia spagnola e i loro complici locali, aristocratici e clero, ai quali era stato affidato l’incarico di esigere i tributi. Costoro svolgevano tale mandato con prepotenza ed infamia, andando ben oltre le disposizioni designate del governatore del regno, defraudando avidamente le povere famiglie di pescatori e contadini.
I rivoltosi, nonostante il successo iniziale e l’eliminazione delle tasse, continuarono per lungo tempo nelle loro azioni e nelle irruzioni alle residenze dei nobili, uno dei primi ad essere raggiunto dalla furia e dall’odio dei ribelli fu l’esattore dei “regii tributi” Ludovico Scolmafora, la sua casa nei pressi delle colonne del porto venne data alla fiamme “con tutti li mobili che stavano dentro”. Il nobile brindisino riuscì a fuggire grazie ad un abile travestimento e trovò rifugio nel Monastero dei Domenicani della Maddalena, ubicato all’epoca sulla “rua maestra” (via Filomeno Consiglio), dove oggi vi sono gli uffici del Municipio.
La dimora dello Scolmafora fu ricostruita nel 1652 sulla stessa via oggi intitolata alla nobile famiglia brindisina, sull’architrave della finestra che si affaccia sulla piazzetta retrostante le Colonne fu fatto incidere dal proprietario, quasi in atto di sfida, il motto “combusta reviviscit” (bruciata rinasce) e l’anno di ricostruzione, testo ancora parzialmente visibile.
Gli insorti volevano incendiare anche la casa di Pirro Scolmafora, fratello del Ludovico, sita nell’attuale via Assennato (già San Nicolicchio) “ma visto che nel pianterreno erano depositati gli olii del mercante Vitale il quale piangeva ebbero misericordi di lui e passarono oltre”.
Duranti questi avvenimenti non mancarono gravi atti di violenza: un altro esattore “particolarmente inviso”, il giovane Carlo Della Verità, fu trucidato ed il suo corpo trascinato da un cavallo per le strade principali della città, mentre le abitazioni della sua famiglia furono distrutte dalle fiamme.
Contestualmente in altre località della Terra d’Otranto, vi furono analoghi tumulti popolari contro pressione la tributaria e il malgoverno spagnolo: il 25 luglio a Ostuni vi fu “un’orrenda sollevazione antifiscale” con a capo il barbiere Francesco Antonio Turco. Anche a San Vito, Latiano, Ceglie Messapica e Francavilla Fontana vi furono insurrezioni popolari più contenute rispetto a quanto avvenuto nella vicina Grottaglie, dove “la sollevazione assunse carattere di vera carneficina”.
Fu necessaria tutta la capacità diplomatica e l’influenza sul popolo del sindaco Leanza e del Vescovo per calmare gli animi e fermare la sommossa, come testimoniato dalle cronache del tempo: “mentre tali misfatti succedevano a Brindisi, reggeva la sede arcivescovile Francesco Dionisio Odriscol, irlandese. Egli mise in opera tutto lo zelo per sedare il tumulto popolare, e vi riuscì felicemente. Il conte d’Ognatte gliene rese ampi ringraziamenti, commendando la fedeltà dei brindisini”.
Se a Napoli la rivolta fu domata nell’aprile del 1648, a Brindisi il tutto si concluse cinque mesi dopo: il 3 settembre cinquecento soldati armati alla guida dell’auditore Aras, ai quali si unirono anche alcuni nobili locali, circondarono e attaccarono il quartiere Sciabiche. I principali esponenti della rivolta furono catturati e portati nel carcere di Lecce, prima di essere deportati a Napoli, dove vennero dichiarati colpevoli di lesa maestà. Il 17 dicembre 1649 furono impiccati in una piazza della capitale i quattro principali capipopolo della rivolta brindisina: i fratelli Donato e Teodoro Marinazzo, Gregorio Adorante e Carlo D’Aprile alias Miccoli; nel gennaio del 1650 Francesco Di Sonno, Alessandro Lepre e Orazio Sinapo furono condannati al carcere a vita, stessa condanna anche per Marco Scatigno che preferì avvelenarsi nel carcere di Lecce. Molti altri rivoltosi riuscirono ad evitare la cattura e a fuggire, rimanendo in esilio.
Sarebbe stato giusto riconoscere il sacrificio dei fratelli Donato e Teodoro Marinazzo dedicando loro una delle strade del rione Sciabiche, o almeno ricordare con una epigrafe, da affiggere nel suggestivo ed antico quartiere dei pescatori, il loro impegno per la libertà, così come è stato in altre città del meridione, in primis a Napoli, dove gli eroi del popolo non sono stati dimenticati.