Quando il poeta Virgilio volle farsi nostro concittadino concittadino

di Nazareno Valente per IL7 Magazine

La diceria che il poeta di Andes avesse posseduto casa a Brindisi – cosa di cui abbiamo chiacchierato due settimane fa – non era tuttavia fine a se stessa ma funzionale a tutto l’apparato di leggende messe insieme per costruire l’immagine di un Virgilio brindisino d’adozione. Era pertanto di supporto ad una pretesa consuetudine del mantovano a risiedere nei nostri lidi ed alimentava, al tempo stesso, tutta una serie di estemporanee deduzioni degne della migliore favolistica. I rami più estremi di questi frutti medievali si sono con il tempo inariditi tuttavia, ogni tanto, i più strenui cultori del copia ed incolla li riscoprono, presentandoli come fossero le più originali primizie. Vale così la pena di esaminarli, nella speranza di dare un sia pur piccolo apporto ad una loro definitiva collocazione nell’ambito più proprio delle tradizioni leggendarie; cosa che concorrerebbe a renderli più utilizzabili per una promozione turistica delle nostra città, senza correre il rischio d’essere accusati di eccessivo provincialismo.

A raccogliere tutti questi aneddoti fu Giovanni Maria Moricino anche se a diffonderli ci pensò nel XVII secolo Andrea Della Monaca. Nel suo «Memoria Historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi», quasi copia conforme del manoscritto “Dell’Antichiquità e vicissitudine della Città di Brindisi” del Moricino, il carmelitano arrivò a scrivere che Virgilio «volle non di meno aspettar la morte, ch’egli prevedeva in quella città (ndr, Brindisi), che s’havea eletta per patria, havendovi tenuto lungo domicilio…». Il che già di per sé contrasta con tutte le fonti antiche, oltre che con gli espressi desideri del poeta mantovano, ma non è nulla in confronto a tutto l’apparato di dicerie che poi aggiunse. Dopo aver infatti fantasticato pure sul povero Quinto Orazio Flacco, il Della Monaca narra in piena libertà che: «Non men stretta amicizia hebbe l’altro, cioè Virgilio coi Brundisini affettionandosi di tal modo a quelli, che volle farsi lor Cittadino, come fù da tutti unitamente acclamato, eligendosi anco la casa, che è nella parte della città, che mira per drittura al porto sopra il promontorio delle due Colonne. Quivi menò egli parte de’ suoi anni, e quivi scrisse buona parte delli suoi maravigliosi componimenti dell’Egloghe, delle Georgiche, e dell’Eneide…».

Sulla casa, i cui resti sono ora inglobati in una palazzina sulla sommità della Scalinata Virgilio, s’è già discusso, per cui basterà esaminare le altre questioni sollevate dal frate.
Virgilio non poteva, come afferma il Della Monaca, «farsi cittadino» brindisino per due banali considerazioni. La prima per una questione di fatto: Brindisi allora era un municipium ed i suoi abitanti erano cittadini romani, quindi in possesso della stessa cittadinanza di Virgilio; la seconda collegata al diritto romano che non prevedeva, anzi ricusava, la doppia cittadinanza: se i brindisini avessero avuto una cittadinanza diversa, Virgilio, assumendola, avrebbe conseguentemente perso quella romana. L’acquisizione di una cittadinanza diversa faceva infatti automaticamente decadere dalla titolarità di quella romana. A tal proposito, Cicerone ricordava che «nessun cittadino romano può appartenere a due città: non può essere di questa città chi si è dichiarato per un’altra» («Duarum civitatum civis… nemo potest: non esse huius civitatis qui se alii civitati dicarit potest», Pro L. Cornelio Balbo, XII, 28.).

Risulta allo stesso modo fantasioso che a Brindisi «menò egli parte de’ suoi anni». Se, come attestato dai suoi biografi, il poeta rifuggiva dalla stessa Roma, perché troppo industriosa e caotica per la sua indole riservata, è difficile credere che trovasse invece congeniale vivere in una città come la nostra che, oltre ad essere una metropoli, era un vero e proprio “porto di mare”, con tutte le caratteristiche negative che una tale circostanza comportava in termini di vivacità eccessiva, disordine, rumorosità. Ma, in aggiunta alle fonti letterarie e alle ragionevoli ipotesi formulabili, sono gli stessi dati a sconfessare una simile possibilità.
Tutti sanno che, in punto di morte, Virgilio manifestò la ferma volontà che l’Eneide fosse data alle fiamme perché priva degli ultimi ritocchi, ma non fu questo il suo unico espresso desiderio. Ce n’era un altro: essere sepolto nell’amato sobborgo di Napoli sulla via Puteolana. Aspirazione che risulterebbe alquanto strana, se agli effetti pratici Brindisi avesse rappresentato la città dove desiderava morire avendola eletta a patria ed a dimora permanente, come raccontatoci dal Della Monaca. Ci assicura infatti il suo più affidabile biografo, Elio Donato, che le ossa del poeta «furono trasportate a Napoli e riposte sulla via di Pozzuoli a circa due miglia» («Ossa eius Neapolim translata sunt tumuloque condita, qui est via Puteolana intra lapidem secundum»). Fu quindi a Napoli che Virgilio volle essere sepolto, perché lì aveva avuto abituale ed assidua dimora, come tutte le fonti storiche per altro certificano.

Lo stesso famoso distico, che si dice, forse a sproposito, composto dal poeta perché servisse come sua iscrizione funebre, sta a provare che Brindisi non lo aveva coinvolto emotivamente al punto tale da fargli considerare la possibilità di viverci. Si legge infatti: «Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc/ Parthenope; cecini pascua rura duces». Vale a dire: «Mantova mi generò, i Calabri mi rapirono, mi tiene ora/ Napoli; cantai i pascoli, le campagne, i condottieri». Virgilio indica pertanto esplicitamente la città di nascita e di sepoltura, mentre il luogo in cui sta per morire lo identifica con un generico Calabri. Un modo invero un po’ freddo per dimostrare affetto nei riguardi della nostra città.
In definitiva, non c’è motivo valido per credere che Virgilio abbia avuto mai l’intenzione di fermarsi a Brindisi più di quanto le circostanze rendevano necessario. La sua seconda patria, senza dubbio alcuno, era la solitudine che la periferia di Napoli gli garantiva.
Se Virgilio ha frequentato solo occasionalmente la nostra città, è logico dedurre che non vi abbia potuto scrivere «buona parte delli suoi maravigliosi componimenti dell’Egloghe, delle Georgiche, e dell’Eneide». Ma vi sono altri indizi che inducono a ritenere tale evenienza del tutto improbabile.

Le Egloghe (più spesso intitolate Bucoliche) furono composte nel periodo in cui il poeta era costretto a seguire personalmente la triste questione dell’esproprio delle terre paterne possedute nel mantovano e, quindi, non poteva trovarsi contemporaneamente in una città, come Brindisi, che distava settimane di viaggio dalla sua zona d’origine. Per le Georgiche è lo stesso Virgilio a farci sapere che, durante i sette anni in cui le compose, egli viveva a Napoli coltivando il piacere di stare in disparte: «illo Vergilium me tempore dulcis alebat / Parthenope studiis florentem ignobilis oti…» (Georgiche, IV, 563-564). Stessa dimora, al più intervallata con qualche sporadica visita in Sicilia, sembra che il poeta abbia avuto nel periodo di stesura dell’Eneide. Se non bastasse, anche Ferrando Ascoli, che pure non era certo poco propenso a dare credito alle dicerie e che di fake news ne coniò in quantità industriale, si mostrava scettico dichiarando esplicitamente: «È leggenda popolare che qui egli abbia composto buona parte delle sue opere. Viste le molte e strane leggende, che intorno a Virgilio s’intrecciano nel Medio-Evo, è lecito dubitare di ciò, considerando anche l’architettura e la posizione della casa» (“La storia di Brindisi”, Arnaldo Forni Editore, 1981, p. 35).

Per completare il quadro, occorre aggiungere che Virgilio non riservò neppure un verso della sua produzione alle nostre contrade; anzi, dimostrandosi un Brindisino, sia pure d’adozione, alquanto poco allineato, assegnò in aggiunta eccessiva attenzione ai lidi tarantini. In quell’antica epoca, in cui Tarantini e Brindisini si detestavano con tutto il trasporto possibile, la semplice menzione della controparte era vissuta come un tradimento, figuriamoci cosa avrebbe comportato il parlarne bene. Eppure Virgilio, nella sua per altro improponibile casetta con vista sul mare, decantava nelle Georgiche, al posto delle campagne brindisine, proprio quelle degli odiati nemici. È sufficiente leggere quando ne celebra l’ubertoso retroterra, «saltus et saturi petito longinqua Tarenti» (Georgiche, II, 197), oppure nei versi ben più famosi in cui fa onore alla vita semplice d’un vecchio contadino, che eguagliava nell’animo la ricchezza dei re coltivando il suo terreno di pochi iugeri sotto le torri della rocca di Taranto (Georgiche, IV, 125-132), per trovare impropria la semplicistica ricostruzione compiuta dal Della Monaca sulla presunta corrispondenza d’amorosi intenti intercorsa con i nostri concittadini.

La dovizia di particolari con cui il poeta si sofferma sulle campagne del tarantino fa intuire una conoscenza non solo mediata di quei posti, facendo di conseguenza trasparire una consuetudine di rapporti che, invece, con Brindisi sembrano in effetti inesistenti. Come già riportato, non correva buon sangue tra le due città, e così era stato sin quasi dal primo apparire dei Parteni, i fondatori della colonia greca di Taranto. Tranne che nelle fasi iniziali, in cui si presentarono con il ramoscello d’ulivo allo scopo d’essere accolti benevolmente e consolidare la propria posizione, i coloni spartani trattarono la gente del luogo con la spocchia usuale dei conquistatori. A quel tempo (inizio VIII secolo a.C.) il territorio brindisino si estendeva lungo tutta la direttrice dell’istmo che unisce la nostra città a Taranto e c’erano stanziamenti sparsi un po’ d’ovunque. Un gruppo di nostri avi era insediato sul promontorio dell’allora penisola posta tra il Mar Grande e il Mar Piccolo, l’odierna Taranto Città Vecchia, e fu il primo ad essere attaccato e distrutto dai nuovi arrivati. Da quel momento, iniziarono le ostilità che si protrassero per secoli con alterne fortune e con non pochi bagni di sangue. Poi, appena i romani imposero le loro leggi, la battaglia per la sopravvivenza divenne scontro di carattere tipicamente commerciale che, in breve, si risolse a favore della nostra città, o per meglio dire a vantaggio del nostro porto che divenne la quasi esclusiva porta per l’Oriente.
I Tarantini avevano di che masticare amaro e, come avviene in questi frangenti, al danno si aggiunsero le beffe: il “loro” per certi versi Virgilio aveva infatti avuto l’avventura di morire proprio nell’odiata città di Brindisi. Ma questa circostanza creò anche un appiglio per dare vita ad una leggenda tarantina che modificasse la realtà secondo i loro desideri. L’evento prescelto fu appunto la morte di Virgilio che si spacciò avvenuta a Taranto e non, come nella realtà, dalle nostre parti. Il tutto nacque probabilmente negli ambienti colti tarantini ed ebbe lunga gestazione sinché, come vedremo meglio nella prossima puntata, valicò gli angusti confini provinciali prendendo addirittura corpo in una tradizione manoscritta della “Vita Vergilii” di Servio.