Il sottile piacere della vergogna

di Maria Rita Greco

Una signora del quartiere, sconcertata, mi ha raccontato che dal suo balconcino a piano terra hanno rubato delle piante. Gerani. Gerani rossi. Due. Ora, il fatto potrebbe passare anche inosservato, in fondo il danno è lieve (due gerani costano, ad occhio e croce, 4 euro), e poi è frequente, succede spesso che piantine vengano sradicate da aiuole pubbliche e fioriere di privati che tentano di ingentilire il loro territorio. Eppure, il racconto mi genera delle domande. Chi può fare questo? E perché non è stato fermato dalla vergogna? Provo ad immaginare la mano aggressiva di un ragazzo col fare da bullo, la timida mano di un’attempata signora la cui pensione non le consente di concedersi il lusso di un fiore. Forse una persona livorosa la cui condizione non le permette di accettare la bellezza di quel balconcino.
Che sia aggressività o invidia o livore, dietro a quel gesto apparentemente innocuo, perché non ha il peso di un crimine, c’è una persona che non prova vergogna nel momento in cui lo compie. Il vuoto della fioriera evoca comunque l’assenza, in quella persona, del disagio che si dovrebbe provare per un’azione oggetto di un giudizio sfavorevole. E allora viene facile ripetere ciò che un po’ tutti ripetiamo con sofferenza ma impotenti: “non c’è più vergogna…”. In effetti, secondo la sociologa Gabriella Turnaturi, la vergogna ha solo subito una metamorfosi. Essa compare non collegata a concetti di onore e dignità ma dà conto solo alla nozione di prestazione e secondo una valutazione, della stessa, molto individualista. La prestazione deve rispondere ai canoni del successo o, meglio, il successo così come lo intende il soggetto in quel momento e in quella situazione.
La persona che ha rubato la pianta, quindi, non si sarà vergognata se avrà pensato che il gesto compiuto ha contribuito a dare, secondo un suo individuale parere, un buon spettacolo di sé. Se il bullo si sarà sentito figo, se la vecchina più ricca, se il livoroso abbastanza malevolo da piacere ad un pubblico sadico, allora, dice la Turnaturi, chi ha rubato le piantine non si sarà vergognato. Si spiega così come mai molti politici, nell’offrirci uno spettacolo indecente, si autorizzano a fare le peggiori malefatte pur di raggiungere il proprio personale interesse. Si perdonano, si legittimano nelle loro spudoratezze perché, nell’ottica di una vergogna relativa e situazionista, che ha preso il posto della vergogna che rispondeva ai codici dell’onore e dignità del comune sentire, loro sono convinti di non avere motivo per cui provare mortificazione.
“Se l’essenziale è che io raggiunga il successo, allora tutto è lecito”. Forse, in prospettiva delle elezioni, agli uomini che andremo a votare sarebbe opportuno, ai fini di una giusta scelta, chiedere “di che vergogna sei?”.