Apani, non solo mare: i resti del viadotto romano

di Giovanni Membola

Da possibile opportunità turistica a ruderi coperti da vegetazione spontanea. I resti dell’antico viadotto di Apani sono segnati da un destino avverso, da sempre. Del poderoso ponte che permetteva l’attraversamento del canale Lapani (oggi chiamato Apani per un mero errore materiale di scrittura commesso nell’800), rimane ben poco, ma ancora si nota il prezioso rivestimento in “opera reticolata”, la raffinata tecnica edilizia romana con cui veniva realizzato l’ornamento di un muro.

Il ponte faceva parte dell’importante via Traiana, una variante della più antica via Appia, voluta dall’imperatore Traiano fra il 108 ed il 110 d.C. per rendere più agevole e veloce il percorso che univa la capitale dell’impero al porto di Brindisi. Di entrambe le strade consolari che attraversavano il nostro territorio rimangono ben poche tracce, della via Traiana in particolare: oltre ai resti visibili all’interno di Egnazia, restano solo i frammenti dei muri di contenimento di questo ponte, ben occultati dalle sterpaglie, che solo in pochi ne conoscono l’esistenza. I resti del viadotto sono a circa 500 metri dalla masseria Apani, sul lato a sud del canale – all’epoca più profondo e ampio rispetto all’attuale – e a ovest della statale n. 379.

Restano solo alcuni parapetti spessi 70 cm e i contrafforti larghi dai 110 ai 150 cm che affiancavano e rinforzavano la struttura. La lunghezza complessiva del ponte era di circa 142 metri per una larghezza di 6,35 metri comprensiva dei muri laterali spessi 80 cm, pertanto la sede stradale era larga 4,75 metri, tale da permettere il passaggio di due carri in entrambi i sensi di marcia. Il viadotto era alto oltre due metri, rinforzato con una serie di speroni sporgenti 1 metro e 35 cm distanziati tra loro poco più di 3 metri. Per tecnica costruttiva è stato ritenuto simile a quelli individuati in Puglia sulla medesima strada di comunicazione che attraversavano i fiumi Cervaro, Carapelle e Ofanto, tutti ancora esistenti, ovvero rispondenti alle caratteristiche dell’edilizia pubblica di età traianea.

La struttura fu realizzata con la tecnica dell’opus caementicium, opera cementizia molto utilizzata dai romani costituita da malta (calce mescolata a sabbia o pozzolana), pietre e tegole frantumate, il tutto completato con un rivestimento esterno in opus reticulatum, ancora ben visibile: il paramento veniva realizzato disponendo sul muro piccoli blocchetti di pietra in file conformi con i lati a 45° rispetto alla linea orizzontale, così da ottenere come effetto finale un reticolo regolare disposto in diagonale sulla superficie della parete. Rilievi topografici effettuati negli anni ’70 indicano la presenza di ulteriori parti del viadotto anche a nord del canale, oggi purtroppo del tutto scomparsi. Su questa strada consolare – e quindi da questo ponte – sono transitati per secoli soldati, imperatori e merci, mantenendo quasi inalterata la sua importanza anche durante tutto il Medioevo quando fu utilizzata come via Francigena del Sud, soprattutto nel periodo delle crociate.

Provare ad immaginare un recupero di questa antica costruzione, contestualmente ad altre strutture di epoca romana presenti nella stessa zona, ovvero il Pozzo di Vito e le fornaci di Apani, è più di un’utopia, visto l’impegno di risorse economiche necessarie e lo stato di irrimediabile degrado di questi antichi manufatti, accontentiamoci quindi di immaginare su cosa avrebbe potuto contare il nostro già ricco patrimonio archeologico e come si sarebbe potuta riqualificare quest’area periferica di grande interesse culturale, già consolidata per le sue caratteristiche turistico-balneari.