CATERINA / Racconti al balcone

di Ida de Giorgio per IL7 Magazine

“…e anche il solito sacchetto di fave secche”, disse Caterina.
Il signor Franco sospirò mentre la serviva, poi la accompagnò alla porta del negozio e la vide allontanarsi, scuotendo la testa.
“Poveretta”, disse a bassa voce, rivolto ai clienti presenti, “non si rassegna”.
Nel paese, tutti sapevano che Caterina aveva rischiato di morire per il favismo, quando era piccola, e che preparava quel piatto ogni sabato, solo per Alfonso.
Tutti sapevano anche che, da due mesi, Alfonso era sparito, abbandonando la moglie.
Perché un uomo brillante come lui avesse sposato la scialba Caterina, era sembrato un mistero, visto che avrebbe potuto scegliere fra le più belle del paese.
Ma così era stato: dieci anni prima, non appena era rimasta orfana, ne aveva chiesto la mano e dopo pochi mesi si era già trasferito nella casa di lei in fondo al corso, quella con il giardino grande ed il pozzo.
“Che uomo generoso”, avevano commentato i compaesani, pensando si fosse sacrificato per solidarietà verso la figlia del vecchio notaio.
Durante la settimana, se ne andava a lavorare in città e tornava il sabato mattina col primo treno, giusto in tempo per sedersi a tavola con la moglie. Poi ripartiva il lunedì, prima dell’alba. Caterina lo accompagnava alla stazione più vicina con la vecchia Panda, che era stata della madre e che sembrava camminasse per la sola opera dello Spirito Santo.
“Non c’è bisogno di una macchina nuova”, ripeteva Alfonso,” il paese è piccolo, a cosa serve?”
Caterina si adattava, per il marito sembrava che lei non avesse mai bisogno di niente.
E anche quando riteneva le servisse qualcosa, era sempre lui a decidere tutto.
Le sceglieva gli abiti comprandoli in città: “ti sta benissimo”, diceva, anche quando le stavano troppo stretti o troppo larghi.
“Sei bella così”, le ripeteva, se Caterina si fermava davanti alla vetrina della profumeria o si lamentava dei primi capelli bianchi.
Il giorno che si fece trovare in stazione con un lucida labbra rosa chiaro, Alfonso le aveva porto un fazzoletto di carta perché si ripulisse, prima ancora di salutarla.
Poi però, se la portava in trionfo la domenica, alla messa e all’aperitivo al bar della piazza, tenendosela appesa al braccio come una gruccia, mentre salutava tutti con grandi sorrisi.
Ad ogni Natale, le regalava un elettrodomestico “per renderle la vita più comoda e dimostrare quanto le volesse bene”, persino un frigorifero che faceva i cubetti di ghiaccio. “Nessuno, in paese, ha una casa così fornita”, le ripeteva.
Tutti si complimentavano con Caterina, per quella grande fortuna che aveva avuto, nell’avere un marito così; nessuno mai era andato a dirle che Alfonso non aveva perso le sue abitudini di donnaiolo e che, in città, si teneva un’altra, molto più bella.
Del resto, che importanza poteva avere: un uomo aveva diritto ad una vita più colorata se non faceva mancare niente alla famiglia e quella donna insignificante non era stata in grado neanche di dargli dei figli.
Poi, un giorno, Alfonso non era tornato al solito orario. Caterina aveva aspettato il treno successivo e quello dopo ancora. Niente.
La domenica mattina era andata alla stazione dei Carabinieri. Il maresciallo le aveva chiesto se avesse provato a telefonargli, ma Caterina aveva alzato le spalle: “che mi deve succedere?” diceva Alfonso, “Sabato sarò qui di nuovo”. Non sapeva proprio dove trovarlo in città.
Il maresciallo le aveva promesso di fare delle ricerche, ma era sicuro che Alfonso, alla fine, avesse deciso di cominciare una nuova vita e non poteva dargli torto, vedendola andar via con quei capelli trascurati e quel vestito che le pendeva da un lato.
“Figurati se torna” aveva commentato, bevendo il caffè con il farmacista, e da quel momento tutti avevano dato per scontato che nessuno lo avrebbe visto più.
Caterina aveva continuato la sua solita vita, preparando il piatto del sabato e presentandosi in stazione all’orario consueto.
Era stata anche oggetto di una seduta del consiglio comunale, che aveva deliberato di offrirle il posto di segretaria del sindaco, per il rispetto portato a suo padre e per la sorte che le era capitata.
Caterina aveva deciso di accettare e avrebbe cominciato a lavorare il lunedì successivo. Quelle sarebbero state le ultime fave, poi avrebbe smesso di aspettare che Alfonso tornasse.
Spense il fornello, mescolò le fave con un mestolo e le versò in un contenitore di plastica.
Mentre si raffreddavano, caricò la lavastoviglie con i piatti sporchi e accese il televisore.
Era proprio lì, che l’aveva visto.
C’era un servizio sull’apertura della stagione teatrale e Alfonso era passato dietro al giornalista. Era elegante e sorridente, con il braccio sulle spalle di una donna bionda, con le labbra rosso ciliegio e una pelliccia di visone chiaro. La donna aveva sollevato la mano per salutare la telecamera, e Caterina aveva visto il bracciale con i pendenti, lo stesso bracciale che lui aveva liquidato con “a che ti serve, non vai da nessuna parte”, quando glielo aveva mostrato sulla pagina di una rivista.
Toccò il fondo del contenitore, per controllare che le fave si fossero raffreddate abbastanza, poi entrò nella dispensa ed aprì il congelatore a pozzo. Non c’era quasi più posto.
Trovò uno spazio fra il collo e la spalla, fissò gli occhi spalancati di Alfonso e richiuse.