Piroscafo Giove, 60 anni fa il naufragio: «Noi salvi dopo 3 giorni nell’Oceano»

di Giovanni Membola per IL7 Magazine

Ascoltare il racconto drammatico dell’ultimo viaggio del piroscafo Giove, salpato da Brindisi il 23 maggio 1958, è come assistere ad un film d’avventura, dove i protagonisti si trovano ad affrontare una serie di sfide quasi impossibili, tra paure e coraggio, prima di concludersi in un lieto fine.
A narrare sono Giovanni Romanelli, classe 1931, uno dei cinque brindisini imbarcati su quella nave, forse l’unico ancora in vita, e Ugo Napolitano, figlio del nostromo Cosimo e depositario dei ricordi del genitore, che in questi anni si è molto impegnato nelle ricerche di documenti e di testimonianze utili alla ricostruzione di quella straordinaria avventura.
La nave, battente bandiera panamense, era giunta sul molo del lungomare Calefati alle ore 10 del 13 maggio, qui aveva scaricato 1.900 tonnellate di fosfati, materiale interamente destinato al vicino stabilimento della Società Fertilizzanti Montecatini spa, ovvero il capannone dove si svolgeva la macinazione e lavorazione del minerale utile alla fabbricazione di concimi “superfosfati”. Il giorno successivo sbarcarono cinque marinai reduci del viaggio iniziato ad Aqaba, sostituiti nei giorni successivi da altrettanti marittimi brindisini, saliti a bordo tra il 16 e il 22 maggio. Contestualmente vennero portati sul mercantile duemila tonnellate di sacchi di cemento, imbracati in ampie reti da carico, e sollevati dalle potenti gru presenti sulla banchina. I marinai brindisini erano Cosimo Napolitano, classe 1911, Antonio Signorile, classe 1908, Cosimo Guadalupi, all’epoca poco più che ventenne, e Giovanni Romanelli, alla sua prima esperienza di navigazione. Il quinto marinaio, secondo la testimonianza di un portuale dell’epoca, doveva chiamarsi Mario Piliego, ma si è ancora in attesa di una conferma.
“Cercavo un lavoro e fui assunto per questo viaggio direttamente al porto – ricorda lucidissimo Giovanni Romanelli – sulla nave c’erano altri cinque marinai triestini oltre al comandante, un simpatico siciliano che ci trattava come figli, un occhio di riguardo era rivolto al più giovane di noi, un sedicenne che si chiamava Gaetano”. Se per Giovanni era il primo imbarco con mansioni di tuttofare, per Cosimo Napolitano si trattava di un’ennesima tappa in giro per il mondo, infatti, dopo il secondo conflitto mondiale, aveva navigato per ogni mare e su diversi mercantili, sostando nei principali scali europei, dell’America del nord, di Russia ed Egitto, attraversando più volte il canale di Panama.
Il comandante della Giove si era molto raccomandato con i facchini affinché il carico venisse ben immagazzinato ed assicurato nella stiva, sia per bilanciare il peso ma anche per evitare scivolamenti e rotture dei materiali, ma evidentemente non fu fatto un buon lavoro, per come andarono le cose. Una volta completate le operazioni di carico, compresi i viveri, la nave sciolse gli ormeggi dalla banchina di Punto Franco ed attraversò il canale Pigonati, con destinazione finale Bombay. Il viaggio fu molto lungo con diversi scali, sia sulla sponda croata dell’Adriatico che in Grecia; nei documenti ritrovati sembra che la nave fece tappa anche a Thassos, un’isola dell’Egeo non lontana dalla costa di Salonicco, prima di attraversare il Canale di Suez, il Mar Rosso ed entrare nell’Oceano Indiano.
La nave in realtà era inadatta ad un viaggio così lungo e particolarmente impegnativo, un timore che la sola sagoma – ed il suo colore grigio cupo – incuteva solo a vederla. All’epoca non esistevano i controlli e le normative attuali ad imporre condizioni di sicurezza opportune, sembra infatti che sul Giove non funzionasse persino il sistema di segnalazione ed emergenza (SOS). Lo si capì purtroppo il 2 luglio del 1958 quando si compì il suo destino: bastò l’urto contro un ostacolo che galleggiava in pieno oceano, o forse per lo spostamento del carico interno, a creare una falla sulla fiancata del piroscafo, “ci accorgemmo quasi subito che imbarcavamo acqua nella stiva, e dopo aver cercato inutilmente di porre rimedio, il comandante – prima che fosse troppo tardi – dispose l’abbandono della nave, che avvenne con ordine e calma. Ci disponemmo su due scialuppe di salvataggio, da dove assistemmo all’affondamento della nave: dapprima si piegò su un lato, probabilmente per lo sbandamento del carico, e poi cominciò a perdere pezzi. Ci mise meno di un’ora ad inabissarsi completamente”. Giovanni Romanelli rivive quei momenti drammatici senza nascondere l’emozione, i suoi occhi manifestano ancora tutta l’angoscia e la tensione di quel giorno, lontano ormai sessant’anni, che mai dimenticherà.
In dieci presero posto sulla lancia più lunga (una dozzina metri), con loro anche il comandante che per tutto il tempo non smise mai di incoraggiare i suoi giovani compagni di viaggio; sulla seconda scialuppa, condotta da un altro marinaio, furono sistemati tutti quei viveri che erano riusciti a caricare. Ma gli inconvenienti non erano ancora finiti: le difficili condizioni del mare provocarono infatti il capovolgimento di quest’ultima barca e tutte le riserve alimentari andarono disperse in mare. Non fu per nulla semplice riuscire a issare a bordo dell’unica scialuppa rimasta il compagno finito in balia delle onde, una lotta tenace contro il tempo e contro gli squali, numerosi in quella zona di mare, “uno in particolare ci seguì per giorni, sembrava voler attendere con calma il momento opportuno per attaccare”.
A Romanelli fu affidato il compito di “tenere la dritta con il remo di prora”, mentre gli altri lanciavano di tanto in tanto fumogeni e razzi di segnalazione, sperando di essere avvistati. Furono tre giorni e tre notti terribili, passati a pregare e invocare la misericordia della Madonna, durante i quali alla speranza si alternavano momenti di delusione, di tristezza e di paura. Si nutrirono solo di gallette, quelle poche che erano riusciti a recuperare, e di fiducia nell’intervento divino.
Dopo diversi ed inutili tentativi di essere intercettati dalle navi in transito, finalmente al quarto giorno il miracolo si compì e l’equipaggio di una petroliera si accorse di loro: il cargo si accostò alla scialuppa, calò una biscaglina, una scaletta con staggi di corda e gradini di legno, dal quale gli undici naufragi salirono a bordo. Sulla nave cisterna, comandata da un inglese e con un equipaggio composto principalmente da cinesi, gli fu offerto solo un po’ d’acqua. Dopo mezza giornata di navigazione giunsero nel porto di Aden, una delle principali città dello Yemen, dove furono visitati da alcuni medici, e dove attesero una nave diretta in Italia. “Dopo qualche giorno finalmente salimmo su una motonave ‘bianca’ dell’Adriatica Navigazione, che ci portò a Napoli”, dalla città partenopea i cinque marinai rientrarono a Brindisi in treno, dove finalmente si concluse la commovente avventura e poterono riabbracciare i propri familiari.
Il mese successivo i naufraghi brindisini vollero ringraziare la Vergine Maria per il miracoloso salvataggio con una messa celebrata nella chiesa di San Benedetto, circondati da numerosi parenti ed amici.
Alcuni di questi ragazzi vivevano nel popolare rione delle Sciabiche, erano figli di pescatori, di gente che trasmetteva fierezza e sani principi, lo si leggeva nelle loro mani, callose e rugose, forti e incise da tagli profondi. Ognuno ha poi scelto la propria strada, svolgendo lavori diversi, c’è chi è rimasto legato al mare, chi invece ha preferito occuparsi di altro, ma tutti hanno trovato nel mare la metafora più autentica della vita. Una vita fatta di sacrifici che gli ha permesso di tramandare ai loro discendenti i valori del rispetto, dell’etica e dell’impegno nel lavoro, così come l’orgoglio delle proprie radici.