Allevi, una magia che si rinnova sul palco del Verdi

Al Verdi c’è tanto pubblico. A quello degli abbonati, si è mescolato quello degli appassionati di musica. Tantissimi gli studenti, i giovani, le famiglie…

Tutti lì per il Maestro…per Giovanni, come ama essere chiamato dal pubblico che lo segue da anni…
La platea e la galleria si sono riempite in poco tempo.
Sipario aperto.
Una voce amplificata raccomanda che è vietato fare foto, video e usare il flash.
Silenzio carico d’attesa.

Una presenza femminile che non ti aspetti, ma poi comprendi subito.
Sara Bevilacqua apre la serata con un tributo a colui che aveva “creduto nella formidabile capacità del teatro di fare e rifare comunità”: Domenico Mennitti, già sindaco di Brindisi, Presidente onorario della Fondazione dal 2011. Sara legge le sue parole, il suo lascito alla cultura che passa necessariamente attraverso questo teatro: “Il Teatro vivrà come noi lo faremo vivere, crescerà in prestigio quanto noi contribuiremo a renderlo centrale nella nostra vita, darà lustro alla Città quanto essa riuscirà a concepirlo non un monumento ma un cantiere di idee e di lavoro”.
Al di là delle posizioni politiche, tutti condividono queste parole. Pubblico in piedi. Nessuno si sottrae ad un applauso partecipe.

Passano pochi secondi e, sul palco in ombra, al centro del quale campeggia un pianoforte a coda illuminato dall’alto, un’apparizione. Entra lui, correndo…Cioè, arrivano prima i riccioli neri, poi le sue scarpe da ginnastica, i suoi jeans sdruciti, la felpa nera con la zip, la t-shirt, nera pure quella, con il disegno di un elefantino stilizzato sul petto.
Poi arriva il suo sorriso, largo, luminoso, amichevole e accattivante…
Prende il microfono e parla con un timbro di voce troppo basso.
Parlerà la musica per lui. Note al posto di parole.
Giovanni Allevi è così.
Entra e sembra un alieno.
Le prime frasi sono per Brindisi: “silenzio”, “bianco”, “azzurro”. Questa triade gli è venuta in mente passeggiando per la città quella stessa mattina e lo dice con l’incanto negli occhi di chi vede per la prima volta realizzarsi un prodigio.
Si siede al pianoforte, ma non dritto e composto come i pianisti dei concerti canonici: si curva sulla tastiera, come chi va incontro ad un amore, i riccioli toccano quasi il legno.
Non è composto Giovanni Allevi mentre suona: è tutt’uno con il “piano solo”, lo accarezza, lo fa vibrare, lo percuote e poi di nuovo lo sfiora con quelle dita che sembrano essere sicuramente più di dieci.
E infatti si chiama “13 Dita” l’album del ’97 da cui trae il primo brano Room 118, il ricordo di una camera d’albergo.
Finito il brano le mani si alzano dalla tastiera, fluttuano nell’aria in un ghirigoro astratto, quasi continuassero a suonare…
Poi si alza. Fa l’inchino al pubblico. Mani al petto. Mani unite in un ringraziamento da un cuore ai cuori di chi sta seduto per ascoltarlo. Sembra stupito, sorpreso di tanto affetto. Non finisce più di ringraziare e il pubblico di applaudire.

Ci racconta la storiella di una signora alla quale, improvvisamente, si rompe la busta della spesa. Le mele cadono dal sacchetto e producono un suono, un ritmo che Giovanni fa suo (mentre qualcun altro, dice ridendo, aiuta la signora a raccogliere le mele). Nasce L’idea (dall’album “Composizioni” del 2003).
Si toglie la felpa, suona, poi si alza. Ringrazia. Parla al pubblico e racconta, Giovanni, di sé, della sua infanzia ad Ascoli Piceno, l’università a Perugia, gli anni del Conservatorio, il trasferimento a Milano seguendo un sogno. E via così. Un saliscendi di emozioni. Si siede e suona come se volesse abbracciare il piano…Sempre così, un po’ seduto, un po’ in piedi.

Arriva il racconto di Helena “Un giorno mi è arrivata un’email da una pianista che mi raccontava di avere perso l’uso della mano sinistra in un incidente. Lei si rammaricava non tanto per la perdita della mano, ma per il fatto che questo le avrebbe impedito di suonare il pianoforte. Sarebbe stata presente al mio concerto agli Arcimboldi a Milano. Mi sono sentito in colpa, sapendola così fragile ed io che suonavo davanti a lei e ad un teatro pieno. Così ho avuto un’idea, le ho fatto una sorpresa componendo un brano, “Meditazione”, per sola mano destra, e l’ho eseguito al concerto dedicandoglielo e regalandole lo spartito. In una nuova email mi annunciò che per tutta la notte seguente si allenò ad eseguirlo, ritrovando il piacere di suonare. Questo è stato il regalo più bello che la musica mi abbia mai fatto”.
La sua commozione è diventata la nostra. Una mano sola, cinque dita che sembrano il doppio…

Un paio di volte è uscito correndo dal palco, e correndo è rientrato, così, semplicemente come fanno i bambini. “Sono un artista anti-casta. Non m’importa delle critiche. So che l’unico luogo raggiungibile è il cuore della gente. Abbraccerei ognuno di voi…Magari dopo”.

Sembra facile quello che fa: riconosci il virtuosismo, percepisci il talento, ma ti trasmette il messaggio che tutto è possibile, che con l’impegno, la determinazione, la passione ci puoi riuscire anche tu. “Quando ero nel mio monolocale contento di fare il cameriere perché ciò mi permetteva di pagare l’affitto, non potevo pensare che le istituzioni avessero un dovere nei miei confronti: io sapevo che la partita si giocava tra la mia musica e il cuore della gente che dovevo raggiungere. Ci vuole un atteggiamento positivo ed irriverente per poter cambiare le regole”.

“Raggiungere il cuore della gente”…
Questo è Giovanni Allevi, capace di citare tra un brano e l’altro, San Tommaso d’Aquino, parlare di Dio come amore per la conoscenza, di come la nostra fragilità sia in realtà la nostra forza, perché, dice “solo chi ama può vedere l’altro così com’è”.
Poi si fa acciuffare dalla “strega capricciosa” e torna di nuovo al piano e quando accenna le prime note di Back to life viene giù il teatro.
Il pubblico viene catturato dalla “strega” anch’esso, non sente la distanza che a volte la musica accademica mette tra sé e le platee. Giovanni ride se l’applauso scroscia istintivo a metà del brano e ti ringrazia perché è nato dal cuore…

“Ho sentito qualcuno che gridava BIS!” dice sorridendo.
E non si risparmia. Ne regala più d’uno. E quando il repertorio finisce, non si ha voglia di andar via.
Il pubblico in piedi lo acclama: ciascuno lo sente amico, un po’ fratello e un po’ figlio.
Ovazione finale, pubblico in piedi, applauso senza fine.

Nel foyer si crea una fila lunghissima ad attenderlo. Lui esce e si offre ancora, paziente e grato, a chiunque voglia un autografo, una foto, uno scambio con lui. Gli porgi il cd o il libro e lui lo dedica a te, soltanto a te…Non solo il suo nome e cognome, ma anche il tuo…Poi disegna una specie di pupazzetto con gli occhi sgranati, oppure un fiorellino… Non strette di mano, ma abbracci e sorrisi.

Un personaggio, un eterno magico ragazzo grazie al quale, chi c’era, ha vissuto un’emozione che non dimenticherà.
La musica in testa e uno spartito tatuato sul cuore.

Giusy Gatti Perlangeli