8 aprile 1946: a Brindisi insurrezione dei reduci di guerra

di Giovanni Membola per IL7 Magazine

Analogamente a quanto avvenuto nel primo dopoguerra, anche alla fine del secondo conflitto mondiale si verificarono in tutta la nazione proteste e manifestazioni di ex combattenti e disoccupati per sensibilizzare le autorità locali e nazionali in merito al problema della mancanza di lavoro. I reduci di guerra in particolare, chiedevano il posto di lavoro occupato prima della chiamata alle armi, proprio nel periodo di profonda crisi: tra il gennaio e l’aprile del 1946 si aggravò ulteriormente, di oltre 183 mila unità, il già alto tasso di disoccupazione nell’ambito industriale. Le proteste si levarono pure contro le donne accusate di occupare “i posti degli uomini”. Un malcontento che presto si tramuto in vere e proprie insurrezioni, con assalti alle prefetture e attacchi ai simboli del potere. Le forze di polizia, ben armate, risposero a questi attacchi sparando spesso sui manifestanti, morirono numerose persone e migliaia furono i feriti negli scontri.
Nei primi giorni di marzo di quell’anno numerose dimostrazioni di protesta si registrarono nelle principali località del meridione d’Italia, in Puglia una vera e propria lotta insurrezionale vide coinvolte centinaia di località tra cui Andria, Bari, Foggia, Lecce, Bisceglie, Molfetta e Cerignola.
Queste manifestazioni non risparmiarono il territorio brindisino: il 3 aprile circa duecento reduci invasero il municipio di Ostuni, mentre la mattina dell’otto aprile a Brindisi una manifestazione da pacifica, ordinata e precisa come voleva essere, rapidamente degenerò in disordini e devastazioni.
La causa delle azioni di insensata violenza che sconvolsero l’intera cittadinanza, fu attribuita ad alcuni delinquenti e facinorosi infiltrati tra i dimostranti. Il primo bersaglio dell’ira dei manifestanti fu il palazzo della Provincia, dove furono rotti i vetri di alcune finestre dal lancio di numerose pietre, qualcuno riuscì persino ad introdursi negli uffici dell’edificio e creare disordine.
La massa dei dimostranti, ormai in preda all’esaltazione e al furore, da piazza Santa Teresa si portò a largo Concordia dove aveva sede l’esattoria, ovvero nel seicentesco Palazzo De Marzo. Fatta irruzione all’interno, fu appiccato il fuoco al carteggio con l’intento di distruggere schedari e le cartelle di pagamento; l’incendio distrusse anche i mobili e si diffuse in tutto l’antico stabile causando gravi danni, tanto che negli anni successivi fu necessaria la quasi totale ricostruzione dell’edificio con la perdita dell’interessante balcone rinascimentale che si affacciava su via Maddalena, al centro del quale vi era una scultura di una testa umana, elemento di chiaro stampo rinascimentale. Per fortuna si riuscì a salvare la bellissima facciata principale che ancora oggi prospetta la piazzetta, con il semplice portale dall’archivolto in rilievo su capitelli figurati, e la straordinaria loggia riccamente decorata da elementi floreali.
Da qui i rivoltosi si portarono al vicino tribunale, all’epoca ospitato all’interno del Palazzo Granafei Nervegna, dove incendiarono le sale della Corte d’Assise ed altri locali dell’edificio, anche in questo caso i danni furono tali da causare consistenti modifiche architettoniche agli ambienti interessati.
La folla ormai in uno stato di eccitazione violenta collettiva e non ancora sazia di questa ostinata rappresaglia, approfittò dell’insufficienza delle forze dell’ordine per sfogare la rabbia anche nei confronti delle famiglie tra le più rappresentative della ricchezza e della nobiltà locale. Alcuni manifestanti si recarono in piazza Duomo, e una volta introdotti nell’abitazione del conte Salvatore Balsamo, in quei giorni a Roma per impegni lavorativi, portarono devastazione e rovina approfittando dell’assenza di tutti i componenti della nobile famiglia. Buona parte del pregiato ed antico arredamento fu bruciato, compresa una singolare scrivania in ebano ed intarsi in avorio e madreperla con lo stemma della famiglia dei Medici. Molti altri arredi e i pregevoli vasi di Capodimonte furono scaraventati in strada dalla furia cieca ed ingiustificata di questi pseudo rivoltosi.
Un altro gruppo di manifestanti tentò di assaltare e devastare allo stesso modo la dimora della famiglia di Teodoro Titi, ma qui i proprietari – presenti in casa – in qualche modo riuscirono a limitare i danni, grazie anche all’intervento della forza pubblica fatta affluire dai luoghi vicini.
La sommossa provocò un profondo sgomento e grande indignazione nell’opinione pubblica locale, molte associazioni di ex combattenti presero le distanze da quanto accaduto, gli stessi reduci, due giorni dopo, organizzarono una “manifestazione simpatica per dimostrare alla cittadinanza che gli atti vandalici di lunedì non sono da attribuirsi a loro, ma a quelli irresponsabili che approfittano di tutte le occasioni per compiere atti di violenza”.
Le cronache dell’epoca raccontano inoltre dell’immediata azione delle autorità locali per procurare l’assorbimento dei reduci disoccupati: riunioni alla Prefettura e all’Ufficio del Lavoro portarono il pronto assorbimento di un gruppo di operai presso il Comune e la Provincia e nella aziende più importanti, oltre alla costituzione di un fondo di solidarietà destinato alla costruzione di case popolari.
Nella stessa giornata dell’8 aprile il Prefetto Cavalieri emise un decreto di dodici punti dove, tra l’altro, si ordinava alle aziende private l’immediata riassunzione dei reduci che già avevano alle proprie dipendenze prima della chiamata alle armi, ed il licenziamento di personale avventizio maschile e femminile che non aveva famiglia a carico, da sostituire con reduci disoccupati.
Considerato il ripetersi di questi episodi di violenza, il ministro dell’Interno Romita decise di impartire disposizioni ai prefetti al fine di evitare altre distruzioni del patrimonio nazionale ad opera di facinorosi, invocando azioni pronte, risolute ed energiche per stroncare qualsiasi tentativo del genere, utilizzando ogni mezzo ritenuto necessario.