Nadia Cavalera, i suoi Palazzi di Brindisi e quegli articoli scritti negli anni Ottanta. Oppure oggi?

di MICHELE BOMBACIGNO

“… soprattutto un atto d’amore per la propria terra dichiarato in modi non oleografici e retorici né con inani lamentazioni da prefica ma con una ricostruzione scientificamente fondata, denunce circostanziate, proposte praticabili.” (Marcello Strazzeri)

“… Comunque io personalmente preferisco considerarlo il semplice resoconto di un viaggio, reale e fantastico insieme, da me condotto tra i palazzi di Brindisi, che mi ha permesso un duplice risultato: e una prima loro catalogazione (che non ha la pretesa di presentarsi come esaustiva) e di rivisitare i momenti storici più salienti della città, risvegliando dal loro sonno uomini e cose e rispolverandone allori e miserie.” (Nadia Cavalera)

Nel 1986 Schena Editore pubblicava un volume a mio avviso straordinario: “I Palazzi di Brindisi” di Nadia Cavalera, docente, pubblicista, saggista, scrittrice, poetessa, donna di grande cultura, nata a Galatone ma allora residente a Brindisi, dove operava come insegnante nonché come collaboratrice de “Il Quotidiano di Brindisi”.

Il libro è diviso in tre parti. In quella introduttiva la Cavalera ripercorreva sinteticamente la storia di Brindisi dalle origini fino agli anni Sessanta del Novecento.

Nella seconda presentava 40 tra i più significativi palazzi di Brindisi (non so quanti di noi brindisini sanno dell’esistenza di tanti preziosi edifici nella nostra città), illustrandone con dovizia di particolari la storia e le caratteristiche architettoniche, arricchendo e alleggerendo mirabilmente la trattazione con racconti, aneddoti, curiosità relativi a fatti e personaggi legati a quelle costruzioni, dando così alla sua opera un taglio che non è solo divulgativo, ma anche narrativo, fondendo rigoroso dato storico e felicissima invenzione letteraria.

Nella sua preziosa presentazione Marcello Strazzeri scriveva, infatti, che “i palazzi, dunque, costituiscono il pretesto per una rielaborazione letteraria di eventi significativi della vita brindisina del passato remoto ma anche recente, e che sono inoltre un piccolo e prezioso contributo alla ricostruzione della storia nazionale.” Così, per esempio, Palazzo Scolmafora offriva all’autrice l’occasione per ricostruire l’episodio che nel 1647 anticipò la ben più nota rivolta napoletana di Masaniello.

La terza parte, denominata “Appendice”, riproponeva, infine, alcuni dei tanti memorabili articoli della Cavalera pubblicati su “Quotidiano” tra il 1981 e il 1986. Articoli (ma forse più che tali vanno considerati racconti dalla prosa elegante e a tratti poetica) dai quali emerge una grande passione civile, uno sviscerato amore per la storia e per l’arte, ma soprattutto una profonda conoscenza delle millenarie vicende di Brindisi e un bellissimo “innamoramento” per la sua città di adozione, alla quale non lesinava più che giustificati e fondati rimbrotti (esemplificativo “Cronaca di un inutile abbattimento: la torre dell’orologio”), da innamorata appunto, e della quale auspicava un riscatto, anzitutto culturale, lanciando consigli e suggerimenti intelligenti, acuti e ben praticabili (tra i tanti la proposta di un recupero, in termini storico-culturali, dei vecchi stabilimenti vinicoli), che ancora oggi sono attualissimi per quanto, in gran parte, ahinoi, inascoltati.

Mi piacerebbe riportare tanti brani tratti dalla seconda e terza parte del volume, ché tutti meriterebbero una citazione, un richiamo, ma naturalmente ciò non è possibile (lancio però qui una proposta: perché non pensare ad una ristampa di questo libro?) e allora mi limiterò a riportare integralmente l’articolo “Visita al Castello Alfonsino” del 21 ottobre 1983 la cui lettura risulterà interessantissima  e straordinariamente attuale, anche alla luce della recente, e “dolorosa”, incursione al Castello del nostro direttore Gianmarco Di Napoli e di Alessandro Caiulo…

Non senza un saluto e un ringraziamento a Nadia Cavalera che oggi vive ed opera a Modena, ma che non ha mai dimenticato Brindisi, come prova anche la sua affettuosa partecipazione all’antologia “Via Maestra” (Hobos Edizioni, 2011) con il racconto “Via Montebello 20 e la nascita di Gheminga”, in accoglimento dell’invito dell’editore e dei curatori che hanno voluto considerarla brindisina al pari degli altri autori presenti nella raccolta. A dimostrazione del fatto che si può amare intensamente una città anche se non vi si è nati e non vi si dimori per tutta la vita.

 Visita al Castello Alfonsino (Nadia Cavalera, Quotidiano, 21 ottobre 1983)

Castello Alfonsino e Forte a mare: vietato l’accesso. Chiunque volesse constatare personalmente lo stato di degrado a cui sono pervenute, o meglio a cui sono state sospinte dall’’indifferenza, queste singolari costruzioni di enorme valore storico-artistico, è assolutamente impossibilitato. È zona militare, dicono, per poi aggiungere che, anche col permesso, è oltremodo pericoloso avventurarsi soprattutto nella Rocca, l’opera fortificata più antica che guarda la città. Ma noi abbiamo corso il rischio e siamo andati, un giorno, all’isola di Sant’Andrea, l’antica Bara, su cui il Forte e il Castello dominano sin dal XV secolo.

Non eravamo soli, ci accompagnava il nostro fotografo, Gianni Di Campi, un po’ recalcitrante per la verità. “Il tempo non è buono per le foto” andava ripetendo “ci converrebbe rimandare”. Ma ormai il permesso era stato ottenuto, l’appuntamento con chi doveva accompagnarci fissato. Superata la diga, fummo ben presto a ‘Bocca di Puglia’, il posto di blocco. Un giovane militare uscì dalla sua guardiola alquanto squallida e, con un forte accento abruzzese, ci pose alcune domande. Arrabattò per un po’ col telefono, alla ricerca di disposizioni. Comunicò i nostri nominativi. “Potete andare” avvertì infine. “Verrà a prendervi il maresciallo Grieco”. La sbarra con l’alt si sollevò. Entrammo. Nel frattempo la nostra guida era arrivata. Ci avviammo subito verso l’altra estremità dell’isola, perché è lì che sorgono gli insediamenti più antichi. Ci scorrevano intanto davanti agli occhi immagini brulle e penose. Ad una battigia, immondezzaio improvvisato del mare, che vi aveva vomitato i rifiuti degli uomini, corrispondeva, dall’altro lato, un’ampia sterpaglia. Solo in fondo, sulla nostra sinistra, si vedevano ciuffi di verde battuti dai venti.

Superammo un cancello di ferro, uno sgangherato steccato in legno. “È il corpo di guardia” ci chiariva la guida che aveva seguito il nostro sguardo, appuntatosi su un cartello, ‘Limite invalicabile’. Annuimmo meccanicamente, ma il nostro pensiero correva già lontano. Ci chiedevamo se invece prima non fossero proprio lì gli orti fiorenti di quel monastero italo-greco, di antichissima origine, distrutto dai turchi nell’XI secolo. Proprio quello che fu poi restaurato dai benedettini, i quali lo abbandonarono solo al tempo delle Crociate. E chissà quanti pirati erano sbarcati su quell’isola, quando, nella seconda metà del XIV secolo, ne distrussero definitivamente la bellissima abbazia. “Ne sarà rimasta traccia?” pensammo inavvertitamente ad alta voce. “Di cosa?” chiese sorpreso il maresciallo. “No, niente” chiarimmo “ci riferiamo alla vecchia abbazia che sorgeva proprio qui, prima che i pirati la demolissero. Pare che sulle sue rovine siano sorte le prime fortificazioni, a difesa di Brindisi. Le stesse che furono restaurate alla fine del 1200 e rafforzate poi dal re Ladislao nel 1410. Su questo nucleo angioino, costruirono, poi, gli Aragonesi”.

“In questo non posso proprio esservi utile”, si schermì sorridente il maresciallo Francesco Grieco, nei suoi disinvolti pantaloncini color cachi e l’ampia camicia di tela azzurra.

La strada si era ristretta. Sembrava fosse finita. Svoltava invece improvvisamente a sinistra, rasentando un’altra parete di terriccio da cui si spenzolavano, gagliardi ed invadenti, giovani pinastri. Proseguiva quindi diritta, come un ponticello a filo d’acqua. A destra le onde si infrangevano sulla diga, a sinistra il canale che lambiva i baluardi dell’Intavolata e di Tramontana. Eravamo finalmente al Forte (nella parte terminale di nord-ovest). Massiccio, lineare, corroso esternamente, ma ancora resistente. Seguimmo le sue lunghe pareti perimetrali, interrotte a metà da un avancorpo che riduce notevolmente l’ampiezza del percorso. Superatolo, un grande spiazzo si apre tra la strada ed il Forte, che, a questo punto, comincia a dimostrare in pieno il suo malessere.

È tutto meticolosamente puntellato dal filo di ferro che lo circonda in un reticolo, come un pacco pronto da spedire (tra i ricordi anche questo?). “Ma non sarà stato peggio?” commentammo meravigliati. “Lo hanno fatto per evitare che crolli, provocando danni alle persone” intervenne Grieco.

Uno strano modo di operare su costruzioni così preziose; e poi perché mai hanno aspettato che si riducesse così?; ci saranno dei responsabili. Correvano questi pensieri nella nostra mente mentre fissavamo i grossi puntelli conficcati nelle pareti per reggere la maglia di ferro, già in più punti sbrindellata o corrosa dalla ruggine. Altro tratto perimetrale e arrivammo alla fine del tragitto. Il mare davanti a noi si insinuava dentro una suggestiva darsena, sotto un profondo arco attraversato da una passerella in ferro, laddove, all’origine, c’era una grossa catena che veniva chiusa in caso di assedio. Al di là del canale che si immetteva nella darsena, di fronte a noi si ergeva, ancora maestoso, il torrione di S. Filippo, voluto (come l’altro di forma triangolare sul mare) da Ferdinando I che lo fece eseguire dal figlio Alfonso, duca di Calabria, per fortificare la primitiva Rocca, già ampliata da antemurali e baluardi.

Raggiungemmo anche noi la darsena, passando sotto una breve ‘galleria’, deturpata dai binari dei carrelli porta-bombe, elemento questo comune a molti altri luoghi o ambienti. “E questo è l’ingresso principale del Forte” ci disse il maresciallo additando un grande portale, sormontato da vari stemmi. Poi continuò: “Internamente è ben tenuto, infatti è abitato. È la parte sul mare che è in pericolo, perché priva di sbarramenti di alcun tipo”.

Volgendo appena lo sguardo intorno, subito si impose lo squarcio provocato dalla furia del mare nella famosa quinta merlata, realizzata per congiungere il Castello al Forte, quando questo fu ultimato sul finire del 1500. In mezzo a quella devastazione, sullo sfondo, si coglieva lo scenario di una annebbiata Montedison. “Quando ci sono le mareggiate” ci illustrava sempre il maresciallo “il mare entra ormai tranquillamente in questo porticciolo. E guardi, lassù, nella sezione della quinta merlata, ancora in piedi, c’è l’antico ingresso al castello, ormai impraticabile perché sospeso nel vuoto”.

Per entrare nel famoso castello rosso di caldo carparo, ci rifacemmo all’altro ingresso, dirimpetto a quello del Forte e preceduto da una banchina sulla verde darsena. Pochi gradini, e un androne conduceva ad un cortile interno, preda del più bieco abbandono. Mine vuote, un pesantissimo portone in legno divelto, masserizie e strumenti vari. Anche il maresciallo se ne stupì. “È  sempre peggio. Peccato, pure l’edera che fino a qualche anno fa si arrampicava verde per decine di metri sulla parete è ormai secca. Fino a che è stato abitato, era diverso”.

Da quel cortile si dipartiva, a sinistra, la scala che conduceva al primo piano, col suo grande salone centrale, circondato da una serie di ambienti, ad andamento curvilineo e poggianti su altri due livelli, con caratteristiche simili, architettonicamente. Ma anche nel loro stato di degrado doloroso. Volte compromesse, intonaci posticci, abbozzi di restauri avventati. “Sarà il regno dei topi, oggi” dicemmo mentre pensavamo che quando Alfonso I d’Aragona l’aveva fatto costruire sul nucleo angioino, non credeva certo che avrebbe fatto questa fine. Il maresciallo intanto ci stava assicurando: “Non temete, qui ormai non ci vengono neanche quelli”.

Tornammo indietro e raggiungemmo i vecchi alloggi dei militari, con le varie dependances. Il maresciallo ci ricordava che proprio su quell’ampia terrazza che li precedeva fino a qualche anno fa si erano svolte le loro feste da ballo. Ora sicuramente la musica per quei luoghi è diversa da un tempo: una vera desolazione e degli ambienti ingombri di cianfrusaglie e delle strutture portanti, con le tante crepe nei muri e smozzicature nelle belle caditoie. Quella terrazza faceva già parte dell’antemurale Nord, i bastioni che servivano a collegare le due costruzioni che da quel momento si configuravano separatamente come Castello rosso e Forte a mare. Da lì osservammo bene il crollo della cortina est, tratto di muratura a spigolo sul mare.

Cogliemmo anche scorci dei gravi crolli su tutto il lato est. “Era l’alloggio del capo fanalista” diceva Grieco “meno male che l’aveva lasciato da qualche mese!”. Raggiungemmo quindi un po’ fortunosamente la postazione del faro, salendo per una stretta scala. Dalla sue feritoie ci seguiva la vista del mare. Mentre il maresciallo ci faceva notare la lavorazione tipica del carparo, a spina pesce, emergente in alcuni tratti dagli intonaci posticci, ci venivano in mente le raccomandazioni del capitano Sapiente, quando ci aveva rilasciato il permesso: “Non raggiungete il faro, la staticità di quella scala è gravemente compromessa”.

Fummo comunque in cima. E ne valse la pena. Tutta l’isola era ai nostri piedi, nella vetusta bellezza, cui era difficile sottrarsi. Si poteva ammirare interamente il porto e i litorali intorno, le isole Pedagne, il faro di Punta Riso. Il vento sibilava forte fra le strutture dell’altro faro spento alle nostre spalle. Il cielo sempre grigio, fumoso d’afa ancora estiva, cedeva ad una pioggerella rada. Ci raggiunsero inaspettatamente le grida dei gabbiani, che dall’alto planavano morbidi, a fior d’acqua. Non ci eravamo mai accorti di quanto stridulo fosse il loro verso. “Lo sapete?” confessava intanto Grieco “ci abito da anni, ma soltanto oggi ho scoperto aspetti sorprendenti, che hanno un loro fascino irresistibile. È veramente una struttura bellissima. La si potrà salvare?”.

Volevamo rispondere, avremmo avuto tanto da dire. Ma pensammo che solo la Brindisi che da lì appariva sonnacchiosa, sotto una coltre d’afa, poteva dare la risposta decisiva. Era nelle sua mani soltanto interrompere l’agonia dolorosa di quell’insigne opera di fortificazione, che fra le sue mura racchiude tanta storia.

Gianni, che non era stato fermo un attimo, scattò entusiasta le ultime foto. E fu il ritorno. Con una grande amarezza dentro, convinti com’eravamo che, al di là di quella sbarra che si chiudeva alle nostre spalle, si stava consumando il delitto più assurdo contro la dignità culturale di Brindisi. La città, perdendo il Forte e il Castello, si sarebbe preclusa definitivamente qualsiasi possibilità di definizione culturale e di crescita turistica.

La pioggia ormai era diventata insistente. Lo sarebbe diventata finalmente anche la rabbia dei brindisini per riappropriarsi della loro storia?

Nadia Cavalera