La conduzione di un allenamento di basket

di Felice Rizzo per IL7 Magazine

In alcuni precedenti interventi abbiamo cercato di tracciare la figura del Coach, addentrandoci su alcuni aspetti “psicologici” dei suoi rapporti con il mondo interno ed esterno alla squadra, illustrando la metodologia da seguire nel corso di una stagione, soffermandoci persino su alcuni errori abbastanza comuni nei giovani istruttori alle prime esperienze.
Oggi vogliamo…entrare in campo. La conduzione dell’allenamento è il campo di battaglia del giovane allenatore, la prova del nove di tutte le indicazioni ottenute dai corsi di formazione, dalle letture specializzate, dalle buone abitudini “rubate” agli allenatori più esperti.
Primo, diamo il buon esempio. Allenamento alle 18:00? Il coach arriva in campo 10’ prima (c’è sempre qualcuno che ha bisogno di una delucidazione, meglio non rubare tempo all’allenamento), in tenuta da allenamento (non certo in jeans e camicia hawaiana), mettendo in bella evidenza sul tavolo il suo piano d’allenamento opportunamente preparato (vedere che il coach è accurato rassicura il giocatore).
La voce. Aspetto fondamentale: il buon Dan Peterson, grande maestro della mia generazione, diceva che “la voce del coach deve avere autorità, senza essere autoritaria”. In effetti, l’allenatore che urla di continuo produce lo stesso effetto di colui che parla sottovoce: dopo un po’ non viene più ascoltato da nessuno. Meglio modulare il tono di voce: intensificare il richiamo quando serve, essere comprensibile e rassicurante in tutti gli altri casi. L’urlare continuo spesso degenera in offese (che non vanno mai bene) e, soprattutto, non fa bene alla salute (lasciatevelo dire da uno che, per gli eccessivi livelli di ipertensione, ha smesso dolorosamente di allenare). Magari si può preferire, di tanto in tanto, anche una dissacrante ironia: “sapete tutti che Matteo è un noto playboy, infatti oggi sta pensando alla sua ultima conquista piuttosto che a difendere come si deve”.
La posizione in campo. Non è marginale. Vedo che va di moda il giovane coach appoggiato al tavolo, a metà campo, a dirigere le operazioni….Orrore! Sto curando la difesa? Mi metterò fuori dal campo, sotto canestro, perché le mie indicazioni ai difensori non li devono distogliere dal controllo dell’avversario diretto. Stesso discorso per l’attacco: la mia posizione sarà in campo, in buona posizione perché la mia voce giunga a tutti, ma alle spalle degli attaccanti.
La conduzione dell’allenamento si può racchiudere fondamentalmente in tre momenti: la spiegazione, la dimostrazione, la ripetizione. A molti allenatori piace… fare i clinic quando si spiega un esercizio: un errore che abbiamo commesso tutti, almeno fino a quando non abbiamo capito che i nostri ragazzi non amano fermarsi. Quindi spiegazioni rapide (1’ max) e precise. Poi la dimostrazione: certo, non siamo tutti Lebron James, ma anche la mia esibizione “alla moviola” sarà utile per la comprensione del movimento richiesto. Ed infine l’esecuzione e la ripetizione del gesto: personalmente credo che più di mille stancanti (e noiose) ripetizioni valga provare quel gesto, quel movimento, in situazione di partita. Quindi sempre, ad ogni allenamento, un’ampia fetta dello spazio orario dedicato al 5vs5: l’agonismo accentua l’interesse da parte del ragazzo ed anche il rendimento che da lui otterremo in gara.
Lo strumento principe nella conduzione dell’allenamento – almeno per noi “vecchia scuola”, ma credo sia un aspetto universalmente riconosciuto – è la correzione. Meglio se volante, destinata al singolo, senza interrompere continuamente il lavoro dell’intero gruppo (altra cosa che gli atleti detestano); l’importante è che sia breve e chiarificatrice. Certo, se l’errore è generalizzato, sarà necessario interrompere il gioco, richiedere l’attenzione di tutti ed evidenziare l’imprecisione, ma sempre in tempi ristretti e termini precisi, per non attentare alla concentrazione del gruppo.
Naturalmente tutte queste indicazioni, tutti questi consigli, non avrebbero efficacia se non fossero accompagnati costantemente dal buon senso dell’allenatore. Buon senso è, per esempio, non fossilizzarsi sull’esatta esecuzione di un movimento, se questo proprio non entra nella zucca dei giocatori: ci sarà tempo al prossimo allenamento per tornarci sopra. Buon senso è non cercare un esercizio troppo sofisticato per illustrare un fondamentale, magari solo per mettere in mostra le proprie conoscenze cestistiche. Buon senso è non voler ottenere tutto e subito dai propri giocatori. Buon senso è non essere estremamente ripetitivo nella scelta degli esercizi: il giocatore è stimolato dalla novità. Buon senso è, soprattutto, ricordare in ogni momento dell’allenamento i presupposti per cui il ragazzo viene in palestra, ovvero imparare-divertirsi-giocare. Non facciamoglieli mancare!