Brindisi Capitale, nel primo consiglio della Corona tutti muti

di Giancarlo Sacrestano

L’arrivo concitato del re, la famiglia reale e del governo a Brindisi, definisce un tempo che gli storici hanno avuto difficoltà a definire, viste le complesse dinamiche dei fatti e dei retro fatti che a tanto hano portato. Ancora oggi si può discutere molto se quella del re sia stata una fuga o l’unica azione a disposizione per salvare la nazione.

Solo la ricostruzione fedele e il riascolto delle tante testimonianze possono rendere certo un giudizio su cui la storia di questi 70 anni ha già emesso il suo.
Brindisi, più dei suoi cittadini, serba nella sua identità la funzione di capitale, o meglio di “prima” città. L’elenco dei tanti primati è lungo, ma volutamente e indifferentemente ignorato. Ricorrendo il 70esimo anniversario della sua elevazione a capitale, mi pare doveroso sottolineare come la dignità della città capitale si sposa con la sua tradizione di luogo che al tempo stesso garantisce e promuove il nuovo. A Brindisi, si sperimenta per esempio, la prima forma di capitale “diffusa”. Le quattro città che costituiscono il piccolo regno del Sud, vengono rese partecipi della dignità di governo e presso di loro, verranno insediati alcuni ministeri. In embrione anche se in forma assai poco ortodossa, si dava vita ad una identità federale dello stato. Altro discorso è capire perché quel concetto non è divenuto elemento costruttivo del nuovo stato.
Ad una lettura, neppure sofisticata dei fatti dell’estate del ’43, si percepisce come la città che fu dei messapi, confermando la sua identità di luogo dell’approdo sicuro, abbia offerto all’Italia nuova, che veniva in quelle ore agognata nelle trattative riservate con gli alleati anglo-americani, il miglior e tranquillo percorso di concepimento.
Quello che sarebbe stata l’Italia del dopoguerra era ben chiaro in mente al generale Heisenhower: un paese democratico, poco importa se monarchico, ma efficacemente legato al partner d’oltreoceano. L’italia che volevano gli statunitensi era necessariamente altra cosa rispetto a quella agognata dall’inglese Churhill, il quale guardava alla penisola quale autostrada per i traffici commerciale con il grande impero britannico che si estendeva in Africa ed Asia.
E’ sul braccio di ferro tra le potenze alleate, che si gioca il futuro del nostro Paese che viene risparmiato dalla invasione militare, anche se la grandissima incertezza degli interlocutori italiani ha reso il tutto estremamente tragico e doloroso per le popolazioni civili. A dimostrazione che gli anglo-americani non avessero una interlocuzione efficace con le dignità della corte e del governo, riporto quel che avvenne al primo consiglio della corona tenutosi a Brindisi.
Brindisi, Sabato 11 settembre 1943, ore nove e tredici: Il Re tiene consiglio nel salotto dell’ammiraglio Rubartelli, comandante la piazzaforte. Sono presenti, il Principe di Piemonte, il Capo del Governo, i ministri De Courten e Sandalli, i generali Ambrosio, Roatta, Puntoni e il ministro della Casa Reale, Acquarone. 
E’ una strana riunione dove tutti sembrano impacciati, scorati, tristi. Solo il Re è calmo e tranquillo, quasi che quel piccolo ambiente borghese, quel salotto modesto ma accogliente, si addica ai suoi gusti di uomo semplice. Inforca gli occhiali e legge: è un messaggio di Eisenhower. Contiene le direttive per una immediata collaborazione tra le truppe alleate e il governo italiano. Badoglio, ad una precisa domanda del Sovrano, si affretta ad assicurare che tutte le richieste di Eisenhower sono state accolte.
Il Re chiede ai presenti se ci sia qualcuno che abbia qualche osservazione da fare: ma nessuno parla.
Allora il Re propone di lanciare un proclama agli Italiani. A sua volta Badoglio dichiara di volere anche lui rivolgere un messaggio al popolo.
Vittorio Emanuele guarda alquanto sorpreso il maresciallo. Vorrebbe dire qualcosa, però finisce con l’approvare la proposta del Capo del Governo con un lieve cenno di assenso.
Poi la riunione si scioglie. Ma nessuno sa dove andare, nessuno sa che cosa fare. Il Re che di buon mattino ha visitato i lavori di fortificazione intorno alla città, si trova anche lui, forse per la prima volta in vita sua, a non sapere come impiegare il tempo. Preferisce allora ritirarsi in una delle varie stanze che l’ammiraglio Rubartelli gli ha messo a disposizione nella palazzina dell’ammiragliato. Il Principe di Piemonte, che durante quel breve Consiglio della Corona non ha detto una sola parola, è il primo ad andarsene. Uno dei suoi aiutanti ha scovato una vecchia Lancia ancora efficiente. L’ammiraglio Rubartelli ha prontamente fornito la benzina necessaria non senza aver raccomandato alle persone del seguito di consigliare Sua Altezza a non allontanarsi dalla città.
A pochi chilometri da Brindisi si spara. Né il pericolo è minore dove non si combatte. Centinaia di operai fino allora impiegati in lavori di fortificazione, potrebbero improvvisare manifestazioni ostili o comunque antipatiche. Meglio perciò rimanere all’ammiragliato, come fanno tutti gli altri, Badoglio in testa.
Ma Umberto di Savoia non è certo 1’uomo adatto ad accettare consigli di prudenza. Inutile parlargli di mitragliamenti aerei, di scontri di avanguardie, di manifestazioni ostili. A Brindisi è al sicuro, ma è come se fosse confinato in una fortezza. Parte perciò subito e non rientra se non a notte inoltrata quando già si parla di mandare qualche reparto volante alla sua ricerca.

La prossima puntata sarà pubblicata giovedì 19 settembre