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Quella difesa a zona che non educa i ragazzi

di Felice Rizzo per IL7 Magazine

Mi capita, ultimamente, di assistere con maggior frequenza a gare di campionati giovanili di basket: una cosa che faccio con piacere perché mi ritrovo, dopo tanti anni da vecchio innamorato della palla a spicchi, ad appassionarmi ancora per quello che considero il “vero basket”, quello che – per intenderci – è fatto di entusiasmo, di dinamismo, di voglia di non mollare, persino di commuovente sconforto dopo una partita persa. Vedo questi ragazzini dimenarsi sul campo e penso a quanto sia importante, per chi li istruisce/educa (sia esso tecnico o genitore), non deludere le loro aspettative, non disperdere il loro entusiasmo, non attenuare la loro voglia di imparare.
Poi assisto a scene per me inconcepibili e mi rendo conto, con amarezza, di quanto sia facile complicare e rovinare un gioco che, invece, è semplice e fantastico.
La prima scena: quella dell’incredulità. Gara Under 13, una squadra che si schiera per 40’ nella più classica (e statica) delle zone 2-1-2, quasi si trattasse della formazione “Dinosauri” del Torneo “Scapoli & Ammogliati” e non di un esuberante gruppo di 12enni. Lo so, i regolamenti federali lo consentono; ed infatti considero questa scelta una delle peggiori “trovate” della Federazione che evidentemente, per non consentire dubbi ai giovani direttori di gara nell’individuazione di una regolare difesa individuale, ha preferito tagliare la testa al toro superando anche aspetti di natura formativa. Personalmente ritengo che la responsabilità diretta della marcatura di un avversario specifico sia più educativa di quella riferita ad uno spazio più o meno circoscritto del campo: non farsi battere dall’avversario diretto, non demandare ad altri compagni il compito dell’aiuto se superato, plasmano il carattere del giocatore, stimolano a rafforzare delle caratteristiche (grinta, attenzione, sicurezza) a mio avviso fondamentali nel nostro Sport. E mi sconvolge, per non dire che mi ripugna, che un insegnante di basket, un educatore di giovani, possa adottare questa scelta solo per portare a casa un referto rosa che, però, non sarà il merito della costruzione di una squadra davvero vincente. Dipendesse da me tornerei ad imporre l’obbligatorietà della difesa individuale almeno fino agli Under 16, lasciando ai 18enni, ai 20enni, ai senior, la possibilità di adottare delle difese che personalmente ritengo “tattiche” e non certo “di base”. Alzi la mano chi la pensa diversamente!
Secondo scena: quella dello sconforto. Accade spesso di vedere, soprattutto in una squadra giovanile alle prime armi, il ragazzino “number one”, quello più dotato fisicamente e tecnicamente, contornato da semplici comprimari: il lunghetto magro magro (che spazzi via con un respiro più forte), il paffutello lento ed impacciato (che dopo una andata e ritorno sul 28×15 alza la mano per chiedere cambio), il timidone che si nasconde dietro l’avversario per non avere la responsabilità di ricevere un passaggio. Succede, certo, e non c’è nulla di sconveniente. Quello che è inaccettabile è ascoltare certe “direttive” del coach: “date la palla a Marco”……….. “non passare a Giorgio, la devi ridare a Marco”….. “Marco, tira tu, che cavolo fai tirare Giuseppe”: un pessimo modo di educare Marco a diventare un atleta, un orribile criterio di formazione e coesione del gruppo. Nella fattispecie, Marco non riuscirà mai a vincere da solo una partita: tanto vale abituarlo a giocare con gli altri e far crescere, individualmente e di squadra, anche i suoi compagni.
Terza scena: e qui la cosa diventa disgusto! 14enni in campo, ragazzino battuto sistematicamente in 1contro1 dal suo avversario, ed il padre che dagli spalti gli urla dietro, a mo’ di incoraggiamento: “e spezzagli le gambe!”. Poi, se qualcuno gli fa notare che quel commento è altamente incivile e diseducativo, l’augusto genitore risponde che ovviamente si trattava di un’esagerazione, ma che in realtà è tutta colpa del coach che ha voluto mortificare suo figlio con una marcatura improponibile. E sì, perché mamma e papà non si accontentano di accompagnare il figlio in palestra (e magari applaudire anche i suoi errori e quelli dei suoi compagni) ma, dopo due o tre partite, diventano gli “Ettore Messina de noantri”, grandi conoscitori delle tattiche di gioco e, soprattutto, autorevoli censori di ogni scelta e di ogni atteggiamento del coach.
Stendiamo un velo pietoso, su queste ed altre scene; ma se la “cultura sportiva” porta a questi eccessi, siamo proprio messi male!