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La Corte d’Assise di Brindisi conferma: “L’omicidio Stasi fu premeditato”

Di Marina Poci per il numero 420 de Il7 Magazine
Un contesto di illegalità diffusa e “normalizzata” in cui la vita di un giovanissimo custode e confezionatore di sostanze stupefacenti vale meno di un debito di droga non saldato; un 17enne che spara a bruciapelo contro colui che definisce amico; un 20enne che tenta di circoscrivere le proprie responsabilità al solo ruolo di autista del killer reo confesso, eppure viene condannato all’ergastolo per concorso nell’assassinio di un ragazzo che nemmeno conosceva di persona: è quanto emerge dalle motivazioni, recentemente depositate, della sentenza di primo grado resa dalla Corte d’Assise di Brindisi nel processo celebrato per la morte del 19enne francavillese Paolo Stasi e per lo spaccio di sostanze stupefacenti nella Città degli Imperiali, nel cui alveo cui il delitto maturò.
Un processo conclusosi il 24 giugno 2025, all’esito del quale la Corte presieduta da Maurizio Saso (a latere Adriano Zullo, estensore del provvedimento) ha irrogato la pena del carcere a vita (con tutte le riserve del caso) per omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi, a Cristian Candita, 23 anni, ritenuto responsabile del fatto in concorso con Luigi Borracino, all’epoca dei fatti 17enne, condannato alla pena di 16 anni di reclusione con sentenza irrevocabile a seguito di concordato definito presso la Corte d’Appello dei Minorenni.
La vicenda giudiziaria di Borracino ha però avuto una coda anche dinnanzi alla magistratura brindisina, giacché per i reati in materia di droga commessi successivamente al compimento della maggiore età (quindi dopo l’omicidio) il giovane killer è stato giudicato e condannato in Assise a 9 anni di reclusione e 50mila euro di multa.
Accanto a Candita e Borracino, nel processo brindisino erano imputati anche Marirosa Mascia, 27 anni, e Sara Canovari, 23 anni, fidanzate dei due, accusate di aver collaborato negli spostamenti e nelle cessioni di stupefacente; Cosimo Candita, padre di Cristian, ritenuto responsabile di aver occultato nell’intercapedine di una parete nei pressi della stazione ferroviaria di Francavilla un fucile ad aria compressa con relativi piombini, e Annunziata D’Errico, madre della vittima, su cui pendeva l’accusa della sola detenzione, in quanto in concorso con Borracino avrebbe custodito nell’abitazione di residenza della famiglia Stasi, trasformata in base logistica dei traffici illeciti, sostanze stupefacenti destinate ad essere confezionate e poi cedute a terzi.
Le accuse, formulate dal sostituto procuratore della Repubblica Giuseppe De Nozza, sono state tutte pressoché confermate dalla Corte, sfociando nelle condanne a 2 anni e 20 giorni di reclusione per Marirosa Mascia; a 4 anni e 4 mesi Sara Canovari e a 1 anno e 6 mesi per Cosimo Candita.
Tutte confermate, le accuse, ad eccezione di quelle mosse nei confronti della madre di Paolo Stasi, contro la quale il compendio probatorio non è stato ritenuto sufficiente a oltrepassare la soglia del ragionevole dubbio, anche per l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in aula da Luigi Borracino, che ha risposto alle domande del presidente Saso e del pm, sottraendosi però al controesame dei difensori degli altri imputati e delle parti civili (con ciò ledendo uno dei cardini del giusto processo, ovvero il sacrosanto principio del contraddittorio).
Ed è stato confermato, come cristallizzato nelle motivazioni, anche il movente dell’omicidio ipotizzato dalla Procura, ovvero il debito di circa 5mila euro accumulato da Paolo Stasi e dalla madre nei confronti di Borracino attingendo sostanza stupefacente dalla provvista che il minore lasciava in custodia in casa della vittima.
La sentenza ha evidenziato come nel corso del 2022 fosse attivo a Francavilla Fontana un mercato di droga (marijuana, hashish e cocaina) che soddisfaceva consumatori di varia età, spesso legato alla movida, e che aveva come protagonisti numerosi spacciatori, facenti parte di vari gruppi criminali: nell’ambito di tali gruppi operavano venditori molto giovani, qualche volta privi di occupazione regolare e, per lo più, fermi alla sola licenza media. Tra i giovani spacciatori vi erano anche il 17enne Luigi Borracino ed il 20enne Cristian Candita, che si avvalevano della collaborazione delle loro fidanzate, nonché del 19enne Paolo Stasi, che – secondo la Corte – aveva il subalterno ruolo di custodire la sostanza stupefacente proveniente da Taranto, Bari e Noicattaro nell’abitazione di famiglia, dove avveniva anche il confezionamento della stessa (nella casa di via Occhibianchi, il cui uscio fu teatro dell’omicidio, furono infatti trovati bilancini di precisione, materiale per il confezionamento delle dosi, residui di marijuana e tracce di cocaina).
Secondo la ricostruzione della Corte, Paolo Stasi fu attinto da due colpi di pistola (mai ritrovata, peraltro) nel pomeriggio del 9 novembre di tre anni fa: fu Luigi Borracino, che in occasione dell’esame non ha esitato a definire suo amico Stasi, a premere il grilletto.
Era arrivato in via Occhibianchi sul sedile posteriore di una Fiat Grande Punto con i vetri oscurati guidata da Cristian Candita; aveva attirato la vittima con una telefonata anonima e aveva fatto fuoco a bruciapelo. Uno solo dei due colpi, quello che penetrò nel torace e lesionò cuore e polmoni, fu sufficiente a stroncare la vita di Stasi.
Poi la fuga dei due amici, organizzata con freddezza, come con freddezza era stato pianificato il delitto nei giorni precedenti, a partire dal sopralluogo del 5 novembre, quando i due si erano recati nei pressi della casa della vittima per controllare, da quella postazione, la collocazione degli impianti di videosorveglianza e le vie di fuga che Borracino avrebbe poi percorso la sera dell’omicidio per allontanarsi dalla scena del crimine.
Un elemento che, secondo la Corte, dimostra in maniera inequivocabile come Candita fosse a conoscenza delle intenzioni dell’amico allora minorenne e come la versione di essersi recati a casa Stasi soltanto per recuperare la busta contenente lo stupefacente rimasto e il materiale utile al confezionamento, nonché per dare una lezione a Paolo sparandogli “due colpi alle gambe”, (versione dai due imputati professata nel corso del dibattimento), in realtà non corrispondesse affatto al programma, ma rappresentasse un semplice pretesto per attirare la vittima in strada.
Di tanto vi sarebbe prova anche nella ricostruzione medico-legale della dinamica del delitto operata dal professor Raffaele Giorgetti, consulente dell’accusa: una ricostruzione che, anche sulla base della distribuzione delle ferite riportate da Stasi (una delle quali inflitta da un aggressore posto esattamente frontalmente), non consente di avallare la tesi sostenuta dal killer, secondo cui egli avrebbe estratto l’arma per gambizzare Stasi e quest’ultimo avrebbe provato a chiudere la porta di ingresso così che la canna della pistola sarebbe rimasta incastrata tra i due stipiti e solo a quel punto Borracino avrebbe esploso due colpi, senza neanche rendersi conto che Paolo era rimasto colpito.
A provare che Candita condivise con Borracino non soltanto l’intenzione omicidiaria, ma anche la premeditazione del delitto, vi sarebbero poi ulteriori circostanze, che la sentenza puntualizza in maniera accurata: l’uso di una vettura con i vetri oscurati; l’arrivo a casa Stasi con i fari anteriori spenti, in modo da eludere eventuali controlli precedenti o successivi al delitto; la chiamata telefonica con modalità anonima, di cui Candita era a conoscenza; la circostanza che la busta da ritirare, che comunque avrebbe potuto essere trasportata da Borracino nel corso della visita che lo stesso aveva effettuato a Paolo nel primo pomeriggio dello stesso giorno dell’omicidio, non fu mai in effetti ritirata.
Tutti elementi, questi, che, stando alla sentenza, rendono evidente che nella condotta dei due imputati non vi fosse mera preordinazione (cioè preparazione dei mezzi minimi necessari all’esecuzione del delitto), ma vera e propria premeditazione, ovvero una ferma volontà criminosa durata diversi giorni e priva di ripensamenti.
Una premeditazione che, a detta della Corte, non può essere limitata al solo Borracino, ma – come si evince inequivocabilmente dalle intercettazioni – deve essere ritenuta sussistente anche per Cristian Candita, il quale, pur avendo inizialmente manifestato all’amico le conseguenze negative dell’uccidere Stasi, aderì poi totalmente al piano del minorenne. “In quel momento ormai stavo là, no? Che dovevo fare?!”, si capta in una conversazione tra Candita e Marirosa Mascia con riguardo alle concitate fasi precedenti all’omicidio; e ancora, in un’altra captazione si ascolta Candita escludere l’ipotesi della gambizzazione, forse suggerita da un fornitore di droga non imputato in questo processo, perché “se lo spari nelle gambe, quello va in giro sotto la caserma e dice «Luigi è venuto e mi ha sparato»”.
È questo il punto focale della sentenza, forse il più atteso dalla difesa di Candita, perché sarà – ragionevolmente – quello su cui potrebbe fondarsi l’atto di appello: secondo la Corte d’Assise di Brindisi, l’istruttoria dibattimentale ha dimostrato che il 23enne ha premeditato il delitto pur non essendone stato l’originario ideatore; secondo le conclusioni della difesa, Candita non era a conoscenza del proposito omicidiario di Borracino e dunque, è escluso che abbia concorso a premeditare un delitto che nemmeno sapeva fosse nelle intenzioni dell’amico.
Dunque Cristian era consapevole che Luigi si stava recando in via Occhibianchi per uccidere Paolo e ne condivideva il piano, oppure Cristian era certo che Luigi stesse andando semplicemente a recuperare la borsa con lo stupefacente e a sparare due colpi nelle gambe per punire la vittima delle dosi mancanti e del denaro perso? Per i magistrati brindisini è vera la prima ipotesi: Borracino e Candita, condividendo il movente, si accordarono sia nella ripartizione dei ruoli per la realizzazione del delitto (esecutore materiale il primo, accompagnatore il secondo), sia nella predisposizione di modalità operative utili ad eseguire l’omicidio senza intoppi e ad assicurarsi l’impunità.
Ma questa è soltanto la sentenza di primo grado e per Cristian Candita vale, come per qualunque altro imputato, la presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva.