di GIANMARCO DI NAPOLI per IL7 Magazine
Doveva essere il punto primo, quello essenziale, per iniziare il recupero del litorale a nord di Brindisi: la messa in sicurezza delle spiagge sulle quali la falesia (ossia la costa rocciosa con pareti a picco sull’arenile) rischia di franare a causa dell’azione erosiva del mare. Il piano prevedeva da un lato la levigazione delle rocce per evitare crolli e dall’altro il ripascimento degli arenili. Insomma i brindisini avrebbero recuperato chilometri di spiaggia fino ad allora inutilizzabile ed evitando pericoli gravissimi, come quello che costò la vita al geologo tarantino Paolo Rinaldi, il 21 ottobre 2010, inghiottito dalla falesia mentre effettuava rilievi tecnici nella riserva di Torre Guaceto.
Doveva essere tutto questo. Anche perché il Comune aveva ottenuto due milioni e 300 mila euro di denaro pubblico attraverso il progetto del Fondo europeo di Sviluppo regionale e successivamente affidato l’opera attraverso un bando pubblico.
Lavori iniziati il 3 novembre 2015 e considerati conclusi il 29 aprile 2016, dopo una proroga di 45 giorni rispetto ai 133 previsti inizialmente.
Dieci punti di intervento sulla costa, individuati dal Comune di Brindisi tra quelli maggiormente a rischio. Siamo andati a vedere, cartina alla mano, la situazione in ognuna delle dieci “stazioni” antifalesia, partendo da nord, ad Apani, e arrivando al lido dei vigili del fuoco.
Siamo partiti dal tratto di spiaggia che corrisponde al Boa Gialla, al confine sud della Riserva di Torre Guaceto, dove si trova il “tratto numero 1”. Poi abbiamo proseguito per il “numero 2”, attiguo al Guna Beach di Apani e quindi, sempre più verso sud, dove sono gli altri tratti: uno a Torre Rossa, due nella zona Case Bianche, quattro in quella di Sbitri e l’ultimo subito dopo la spiaggia dei pompieri.
In questo piccolo viaggio sulla costa cambiava la zona ma gli scenari erano identici tra loro. Lingua di sabbia quasi inesistente, battigia e parte della spiaggia puntellata con rocce collocate artificialmente. E le falesie simili a promontori marziani, privi di vegetazione, totalmente avulsi dalla macchia mediterranea. Zone completamente impraticabili, sia nella parte superiore che in quella inferiore.
I canali naturali che trasportavano acqua verso il mare e creavano pericolosi scompensi sono stati semplicemente ricoperti da pietre per alleggerire il flusso dell’acqua.
Con le motopale è stata effettuata una riprofilatura della falesia che, un tempo a picco sul mare, è stata portata a una pendenza che va dai 25 a 35 gradi di pendenza. Non si può assolutamente percorrerla a piedi e le scale in legno che sono state realizzate sono munite di cartelli che ne vietano l’utilizzo. Sono destinate solo agli operai che effettuano le manutenzioni. Per altro sono quasi tutte distrutte nella zona più vicina al mare e non possono essere usate neanche dalla ditta che effettua il monitoraggio.
Nella parte sottostante non vediamo sabbia, ma solo i massi che sono stati messi a protezione delle rocce: partendo dalla battigia, occupano quasi interamente la sottilissima lingua di sabbia rimasta scoperta.
Non esiste alcuna possibilità per eventuali, coraggiosi, bagnanti di utilizzare le spiagge ai piedi della falesia. Eppure, l’obiettivo era proprio quello di mettere in sicurezza le rocce per consentire senza pericoli l’uso dell’arenile. Parliamo di quasi tre chilometri di costa che doveva essere recuperata.
Insomma ciò che si vede a occhio nudo pone una serie di interrogativi ai quali dobbiamo cercare di dare una risposta. E per averla è necessario andare a verificare quanto è stato speso e cosa era previsto si ottenesse.
E soprattutto, come è stato impiegato il denaro stanziato con i fondi regionali?
E’ un capitolato per il quale il Comune ha ottenuto tre milioni di euro (2.350.000 per l’appalto e 624 mila euro a disposizione dell’Amministrazione).
Andando a guardare le carte, gli interrogativi aumentano.
L’oggetto dell’appalto – si legge nel documento siglato da Comune e Regione Puglia e datato 19 settembre 2013, è “Messa in sicurezza geomorfologica del litorale a nord del centro abitato di Brindisi”. Poi si spiega che l’intervento consiste nella riprofilatura e rinaturalizzazione della falesia e nel ripascimento dell’arenile. Tra le modalità del contratto viene sottolineato che esso è stipulato “a corpo”, ossia che i lavori devono essere realizzati “a pacchetto”, esattamente come previsti dal contratto e secondo un compenso predeterminato. Non ci possonoe essere variazioni, insomma.
Il costo dei lavori è così suddiviso: circa 57 mila euro per lo scavo di sbancamento in rocce sciolte effettuato con mezzi meccanici per una profondità di 30 centimetri; circa 550 mila euro per lo scavo di sbancamento e la profilatura della falesia.
La realizzazione di queste opere è facilmente riscontrabile nei dieci tratti di intervento, dove sono stati effettuati scavi sulla battigia per collocare i massi a protezione dalle mareggiate. E dove la falesia, originariamente a picco sul mare, è stata trasformata nelle più docili discese che abbiamo prima descritto
Ciò che invece sembrano non trovare riscontri (almeno visivi, e abbiamo guardato e fotografato con grande attenzione) sono le altre due voci dei lavori per le quali il Comune di Brindisi ha ottenuto finanziamenti rilevanti.
Prima di tutto, per un importo di ben un milione 400 mila euro, era prevista la fornitura e la posa in opera di circa 45 mila metri cubi di sabbia, inalterabile all’acqua e al gelo, proveniente da cave terrestri, per il ripascimento delle spiagge. Una sabbia pagata anche a un prezzo rilevante, oltre 30 euro al metro cubo. Ma noi questa sabbia non la vediamo.
Inoltre sono stati stanziati 313 mila euro per la fornitura e messa a dimora di piante arbusive di prima scelta per la ricostruzione della macchia mediterranea. Si parla di almeno sedici specie diverse, tra quelle di maggior pregio (e costo) a disposizione. E neanche le piante riusciamo a individuare, in nessuno dei dieci siti.
In sostanza, secondo il capitolato da un lato si doveva ricreare le spiagge sottostanti con una quantità importante di sabbia e dall’altro integrare le nuove profilature della falesia con la macchia mediterranea.
Addirittura, l’inclinazione delle scarpate doveva essere compensata “con una sistemazione di ingegneria naturalistica a difesa del versante risagomato basata sulla posa in opera di rete in fibra naturale (iuta) a funzione antierosiva fissata sul terreno con picchetti di legno, previa realizzazione di un inerbimento con coltre protettiva (pagliabitume) mediante la semina di un miscuglio di sementi di specie erbacee selezionate e idonee al sito”.
Ora non sappiamo se qualcuno dell’Amministrazione comunale abbia effettuato mai controlli sui lavori effettuati. Perché è facile constatare che le falesie sono totalmente desertificate e le spiagge sottostanti per nulla alimentate da sabbia nuova.
La questione dell’arenile appare ancora più clamorosa: secondo l’appalto, sui due chilometri e mezzo di costa dovevano essere ricreati gli arenili con l’immissione di circa 45 mila metri cubi di sabbia. Per avere un’idea delle dimensione, basti immaginare che un singolo camion può trasportare circa 20 metri cubi di sabbia. Dunque sarebbero stati necessari 2.250 viaggi di camion carichi di sabbia, oltre al lavoro dei mezzi meccanici per il ripascimento degli arenili e il loro livellamento. Per avere un’idea, quella quantità avrebbe garantito per ogni metro lineare di spiaggia, circa 17 metri cubi di sabbia. Insomma quasi vere e proprie dune. Dove stanno?
L’Amministrazione comunale del resto aveva la possibilità di verificare. Il contratto prevede infatti che i mezzi utilizzati per il trasporto dei massi, ma anche per quello della sabbia, fossero registrati con numero di targa, controlli sulla taratura e stazzatura.
Esiste un registro del passaggio di questi 2.250 camion carichi di sabbia tra la fine del 2015 e i primi mesi del 2015? E, più semplicemente, qualcuno li ha visti?
C’è un altro passaggio su cui riflettere: il 14 febbraio 2013 si svolse alla Regione Puglia una conferenza di servizi relativa proprio ai finanziamenti che stavano per essere erogati per gli interventi di messa in sicurezza e la protezione della costa. Durante i lavori fu specificato, relativamente agli interventi proposti dal Comune di Brindisi, che la realizzazione di gabbioni con massi ai piedi della falesia era consentita soltanto nelle zone prossime al tracciato della strada. Una situazione che indubbiamente si verifica nella zona di Sbitri. Ma le pietre sono state collocate anche ai piedi della falesia lontana dalla provinciale 41: ad Apani, Torre Rossa e Case bianche.
Un ultimo aspetto riguarda il piano di monitoraggio di cui la ditta appaltatrice deve farsi carico sino al 2019. Esso dovrebbe riguardare principalmente lo stato della vegetazione preesistente e quella che doveva essere piantumata, nonché i rilievi sull’evoluzione della linea di costa. Addirittura il contratto prevede un rilievo dettagliato delle sedici specie di alberi e piante che dovrebbero trovarsi nella zona e che dovrebbero essere “georeferenziate” su una mappa scala 1:500 con l’ausilio di un Gps. Come può essere effettuata la “manutenzione” se è impossibile accedere sulle spiagge sottostanti in quanto quasi tutte le scalette di legno sono semidistrutte? E soprattutto cosa esattamente in questo momento viene sottoposto al monitoraggio?
Gli interventi effettuati sulla falesia, e li abbiamo esplorati tutti metro per metro, “visivamente” sembrano tutt’altra cosa rispetto a quelli previsti con il progetto finanziato in maniera cospicua (e giù liquidato dalla Regione al Comune e da questo alla ditta appaltatrice).
Attendiamo che i tecnici comunali responsabili del progetto sappiano convincere del contrario. Perché altrimenti sarebbe davvero un bel problema.