Le terribili secche di Torre Cavallo, un salto nel blu tra storie di antichi naufragi e recenti attentati alla natura

Nell’estate del 2012 il mare di Brindisi rischiò di subire un autentico disastro ambientale a causa dello sversamento in mare di una notevole quantità di soda caustica, proveniente da un grosso serbatoio a servizio del petrolchimico, che avrebbe potuto avere gravi conseguenze sul delicato ecosistema marino dello specchio acqueo posto a sud delle isole Pedagne. Lo scenario di questo ennesimo attentato dell’uomo alla Natura è stato quello delle temibili Secche di Punta di Torre Cavallo, proprio davanti alla Zona Industriale, a due passi da Micorosa e dai laghetti costieri delle Saline di Punta della Contessa.
Il fondale da quelle parti è basso e degrada molto lentamente verso il largo; basti pensare che ad un chilometro dalla costa non supera ancora la batimetrica di 8 metri ed è chiuso verso nord dalla strada di collegamento alla Pedagna Grande, dove vi è una base militare e la Batteria fratelli Bandiera, una installazione a suo tempo armata da grossi cannoni, provenienti dalla corazzata Caracciolo, dismessa dopo il secondo conflitto mondiale
Queste caratteristiche anche morfologiche, se da un lato hanno circoscritto il disastro evitando che l’acqua contaminata dalla soda si portasse verso la città, dall’altro ha rischiato di acuirlo, nel caso in cui l’assenza di vento e di correnti che c’era nel giorno dello sversamento non avesse lasciato spazio, nei giorni immediatamente successivi, ad una bella mareggiata che ebbe a sparpagliare e diluire fino a rendere quasi innocuo questo prodotto chimico, per cui i danni furono abbastanza contenuti.
Dal momento in cui il biologo dott. Giampaolo Bottinelli, brindisino adottivo, all’epoca Direttore del Dipartimento di Bari dell’ARPA Puglia e grande amante del nostro mare, sentito sull’argomento nei giorni immediatamente successivi allo sversamento, ebbe a dichiarare che un eventuale rischio ambientale si sarebbe riscontrato a breve e non a lungo termine, nel caso in cui il valore di PH dell’acqua marina si fosse alzato e, allora, avrebbe potuto anche provocare una moria di pesce, mi ero sempre riproposto di tornarmi ad immergermi nei fondali di Punta Cavallo, per osservare e documentare la situazione.
L’occasione è venuta dal perdurare per qualche giorno di venti di maestrale, non particolarmente intensi, ma sufficienti a rendere fastidioso il calarsi in mare sulla costa a nord di Brindisi, quella solitamente meta di tutti gli appassionati di subacquea della zona.
Per giungere sul posto, quando non si è dotati di un’ imbarcazione, si deve fare una bella scarpinata per prendere il mare dove un tempo sorgeva l’antica Torre che, a differenza delle altre esistenti sulla costa, costruite in epoca successiva, non era una semplice torre di avvistamento ma, adeguatamente illuminata con dei fuochi, aveva il compito specifico di segnalare la pericolosità delle secche di punta Cavallo. Lì, infatti, a metà del XIII secolo, Re Luigi IX di Francia, futuro santo, insieme con i fratelli, al ritorno dalla settima crociata, sbattè con la chiglia della nave sugli scogli sommersi rischiando il naufragio . Da questo episodio sorse la tradizione del “Cavallo Parato”, in quanto, come prima cosa, il Re di Francia, una volta toccata terra, volle mettere in salvo l’Ostia Consacrata che portava sempre con sé e la consegnò all’arcivescovo di Brindisi Pietro III, che gli era andato incontro montando su un cavallo bianco ; quindi, ricevuto il “corpus Domini”, lo portò in processione verso la città sul destriero tenuto dalle briglie dagli stessi reali di Francia fino alla Cattedrale.
Ora, al posto della antica Torre, di cui rimane oramai ben poco, vi sono due belle – per modo di dire- e “sfiammanti”, oltre che maleodoranti, torce del Petrolchimico
Calatomi in mare, bastano pochi minuti di pinneggiata veloce per giungere ad un grosso scoglio affiorante al cui riparo si è ben protetti dalle correnti e dalle onde generate dal vento di maestrale.
Circa un centinaio di metri più a sud, sempre in corrispondenza di Capo Cavallo c’è un altro grande scoglio, reso da oltre un quarto di secolo invisibile da un grosso peschereccio albanese, oramai ridotto ad un enorme scheletro di ruggine, che si incagliò sulla secca, con il suo carico umano fatto di sofferenze e dolore, agli inizi del grande esodo degli anni novanta.
Ovviamente la vista di quel relitto mi ha fatto ritornare alla mente i numerosi naufragi che hanno interessato, anche i tempi recenti, queste secche.
Nel caso del peschereccio non ci furono vittime né feriti dal momento che a nuoto o soccorsi in mare dai mezzi della Marina Italiana, tutti quanti gli imbarcati giunsero, pressocchè incolumi, nella loro nuova patria.
Diverso fu il destino di altri due naufragi accaduti, alcuni anni dopo, su queste secche: nel marzo del 1997 fu la volta di un vecchio pattugliatore della Marina Militare albanese, con oltre cinquecento profughi a bordo, che andò ad incocciare sugli scogli in piena notte; molti si lanciarono in mare, altri rimasero intrappolati nella stiva, ma, grazie a Dio, i soccorsi giunsero immediati e, lavorando tutta la notte, fino alle prime luci dell’alba, parecchi furono i feriti e gli assiderati, ma nessun morto; due anni dopo andò decisamente peggio ai passeggeri di un grosso gommone carico di profughi albanesi che si schiantò su uno scoglio affiorante e furono sei i poveracci che morirono in quella sventura.
Numerosi sono stati anche i panfili e le barche a vela provenienti da sud e che viaggiando troppo sottocosta, nonostante una grossa boa di segnalazione e la presenza, quale monito, del relitto del peschereccio albanese, sono incappati sulle secche che, invece, i marinai ed i pescatori brindisini ben conoscono e sanno aggirare con cautela.
Riposti nuovamente, in un angolo della mia mente, questi ricordi metto nuovamente la testa sotto il pelo dell’acqua e mi lascio cadere lentamente verso il fondo, cullato dolcemente dai moti del mare.
Assolutamente suggestivo è vedere dal basso ed in controluce lo schiantarsi delle onde sullo scoglio in superficie ed i colori inusuali delle alghe coralline, più rosse che verdi, che hanno colonizzato le pareti rocciose.
Stando a pochi metri di profondità, non più di 6 o 7, ma con scogli affioranti che arrivano fin quasi alla superficee, risultano assolutamente predominanti le alghe più che le spugne ed i coralli, e questo soffice tappeto, fluttuante al gioco delle correnti, costituisce l’habitat ed il nascondiglio ideale per numerose specie di piccoli pesci.
Sicuramente è il regno incontrastato delle Salpe, i pesci vegetariani per eccellenza e dei giovani Saraghi, ma non mancano le solite “nuvolette” di castagnole nere o rondinelle di mare.
Numerosi sono anche pesci di dimensione maggiore che si recano sulle secche non solo per predare ma, contando sulla prudenza dei pescatori che li fa tenere a debita distanza dalle secche, anche perchè si sentono più al sicuro.
È presente pure qualche pescetto un po’ più raro come il tordo musolungo, dalla stranissima forma sottile e schiacciata e dagli inquietanti occhi di color verde pistacchio.
Mi sposto, a questo punto, più verso Est e, dopo aver attraversato una zona assai brulla con poche rocce che si alternano a zone sabbiose, quasi disabitate, giungo finalmente alla prateria di Posidonia che trovo più florida che mai
Mi tornano alla mente i ricordi delle vaste praterie di questa pianta (non alga) marina un tempo quasi invasiva su tutto il litorale, anche quello nord, di Brindisi ed ora ridotto quasi dappertutto a pochi ciuffi di tanto in tanto.
La Posidonia, infatti, è una pianta acquatica endemica del Mediterraneo che riveste una notevole importanza ecologica, in quanto esercita una notevole azione nella protezione della linea di costa dall’erosione. All’interno delle praterie di Posidonia vivono e prolificano molti organismi animali che vi trovano nutrimento e protezione ed il posidonieto è considerato il miglior bioindicatore della qualità delle acque marine costiere: se la Posidonia sta bene, anche il mare circostante gode di ottima salute, in quanto ogni metro quadro di questa prateria libera quasi 15 litri di ossigeno al giorno, produce ed esporta biomassa sia negli ecosistemi limitrofi sia in profondità, creando fonti di nutrimento dove altrimenti non ci sarebbero, fornisce un riparo per molte specie marine, a partire dagli organismi che vivono attaccati alle sue foglie, ha la capacità, infine di fissare i fondali impedendo l’asporto dei depositi sabbiosi e anche, una volta che le sue foglie morte finiscono piaggiate, costituiscono una grossa protezione contro l’erosione costiera.
In effetti nel corso di recenti passeggiate sull’arenile posto fra i laghi costieri delle saline ed il mare, lì dove, non essendoci lidi né pubblici né privati, nessuno asporta dalla sabbia la Posidonia spiaggiata, non vi sono segni evidenti di erosione costiera.
Sulla via del ritorno, nei pressi di un “altipiano” roccioso, ancora più ricco di vegetazione, incontro u giovane dentice che cerca di avvicinarsi alle sue prede preferite e che, da buon predatore, è particolarmente guardingo, per cui si allontana in tutta fretta al mio arrivo mentre le sue potenziali prede restano pressoché indifferenti alla mia presenza e continuano il loro dolce far niente, più incuriositi che timorosi per quello che ai loro occhi appare come un grosso cetaceo e nulla più e tutte quelle bollicine che fuoriescono ad ogni respiro dall’erogatore magari viene scambiato per un sintomo di … cattiva digestione e nulla più!
In conclusione e sulla base della mia esperienza e dei pochi rudimenti teorici di vita sottomarina, ritengo di poter affermare che, nonostante tutto, questo tratto di mare antistante l’area industriale di Brindisi, a dispetto dei continui attacchi da parte dell’uomo e della vicinanza alla bomba ecologica di Micorosa, gode di una discreta salute, come è testimoniato dalla ricchezza di vegetazione, dalle Alghe coralline ai Codium, fino alle praterie di utilissima Posidona, oltre che dalla gran quantità di spugne e molluschi e dalla varietà e quantità di pesce che si rinviene: come le comunissime Castagnole e Donzelle, o i Saraghi delle varie specie e pezzature, o, ancora, vari tipi di Tordi, intenti in estate a nidificare; tantissime, come abbiamo accennato, proprio per la consistente vegetazione, le salpe, fra i pochi pesci assolutamente vegetariani; ma questa, mi hanno confermato alcuni vecchi pescatori, è anche zona di casciule, il nome brindisino delle ricercatissime Mormore, che proprio di estate si avvicinano a questa parte della costa per deporre le uova.
Messa nuovamente la testa fuori dall’acqua, mi guardo attorno: la vista del vecchio peschereccio albanese, lungo oltre venti metri, che dal 1991, incagliato sulla secca, rappresenta meglio ancora di qualsiasi altra cosa, un monumento all’umanità migrante; ed anche se la sua presenza in loco non ha impedito a qualche altro naviglio di schiantarsi sugli scogli, sicuramente ne ha tenuti a debita distanza chissà quanti altri.
Il ricordo dei tragici giorni dell’esodo e della gara di solidarietà che vide come vincitore il popolo brindisino intristisce ed inorgoglisce al tempo stesso; la vista della torcia del petrolchimico intristisce senza inorgoglire; anche lo stato di degrado che regna sulla Pedagna Grande, dove ci sono ancora delle anacronistiche costruzioni militari, non inorgoglisce per niente; ma scorgendo in lontananza la bellezza mozzafiato di Brindisi, dei suoi monumenti e pensando alla bellezza del suo mare e dei suoi fondali, mi inorgoglisco nuovamente senza più intristirmi.
D’altronde, ancora una volta, la natura ha saputo ben reagire agli attacchi scriteriati dell’uomo, rigenerandosi e trovando, in se stessa, la forza per andare avanti….nonostante noi.