
Abbiamo raggiunto l’obiettivo che come divisione traumatologica e ortopedica ci eravamo prefissati e che è fortemente raccomandato dal Ministero della Salute: operare la frattura del collo del femore in pazienti ultrasessantacinquenni in tempi rapidi può voler dire salvare loro la vita, evitando delle complicanze importanti che possono andare dalla congestione cardiopolmonare alle piaghe da decubito, dalle trombosi alle infezioni delle vie urinarie e molto altro ancora. Cosa significa tempi rapidi? Vuol dire che qui al Perrino riusciamo ad operare entro 48 ore dal ricovero il 96,98% dei pazienti pervenuti”: esordisce così il dottor Gianfranco Corina, direttore della unità operativa complessa di Ortopedia e Traumatologia dell’ospedale Antonio Perrino di Brindisi, commentando i dati emersi dal PNE 2018, che collocano il nosocomio brindisino al secondo posto in Italia per la chirurgia delle fratture al collo del femore entro i due giorni dall’accesso al punto di primo soccorso.
Nel periodo di riferimento, meglio del Perrino ha fatto soltanto l’ospedale di San Donà di Piave, con una percentuale del 97,12%. Immediatamente dopo, invece, troviamo un altro presidio sanitario pugliese, il Di Venere di Bari, in cui nell’anno 2018 sono stati operati entro due giorni dal ricovero il 96,35% dei pazienti.
Le cifre appena citate si evincono dal Programma Nazionale Esiti (PNE, per l’appunto), uno studio sviluppato dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Age.Na.S.) per conto del Ministero della Salute e con la collaborazione delle Regioni, che, sulla base dei dati raccolti, elabora a livello nazionale valutazioni comparative di efficacia, sicurezza, efficienza e qualità delle cure prodotte nell’ambito del servizio sanitario.
Contattato nel primo pomeriggio dopo una lunga mattinata di interventi, il dottor Corina, non si esime dall’esaminare i dati a beneficio dei nostri lettori, con cortesia, generosità di dettagli e semplicità di linguaggio. Per quanto si schermisca ed estenda l’eccellente risultato all’intera squadra che ha la fortuna di dirigere (“non sono io il protagonista, protagonisti sono il reparto e in un certo qual modo l’intero ospedale”), il traguardo è di quelli di cui andare fieri anche a titolo personale: al Perrino soltanto dal primo gennaio 2017, in questi pochi anni il primario, che coltiva un senso quasi religioso della professione medica, è riuscito nell’intento di riorganizzare il reparto rendendolo all’altezza degli obiettivi del servizio sanitario nazionale, così come il report del PNE ha chiaramente evidenziato.
Si tratta di un risultato straordinario cui anche le cronache nazionali hanno dato grande risonanza: lei a cosa lo attribuisce?
“Certamente alle competenze e all’abnegazione dei singoli chirurghi, senza i quali non si sarebbe realizzata una percentuale così alta di interventi nelle 48 ore dall’accesso in pronto soccorso. Ma prima delle competenze dei singoli viene l’organizzazione, non soltanto della struttura complessa che io dirigo, ma più in generale di tutto l’ospedale. Lei può immaginare cosa significhi accogliere un paziente di ottant’anni in un reparto chirurgico e prepararlo con l’obiettivo di portarlo in sala operatoria in 48 ore. Senza la collaborazione del pronto soccorso, della cardiologia, della radiologia, dei laboratori di analisi, della rianimazione e via dicendo, non sarebbe possibile predisporre le condizioni di sicurezza per lavorare bene mentre operiamo. La stessa divisione da me diretta ha dei protocolli standardizzati (semplici, ma molto rigidi) a cui tutto il personale deve attenersi. Ed è proprio il rispetto delle linee guida ad averci fatto raggiungere questo risultato che ci gratifica enormemente e ci motiva a continuare il nostro lavoro con questi criteri di funzionalità. Il report del PNE non ci fa vincere nessun premio, ci offre soltanto la conferma che, contrariamente a quanto si possa pensare, organizzandosi bene si può fare della buona sanità anche al Sud”.
Il report del PNE riporta un numero impressionante di operazioni al femore eseguite nel suo reparto, cioè 195. Percentualmente, rispetto a tutti gli interventi che voi eseguite, quelli al femore che quota rappresentano?
“Non posso rispondere a questa domanda senza fare una premessa. All’interno della ASL Brindisi, quindi nei tre ospedali nei quali c’è il reparto ortopedico, annualmente vengono operate più di 500 fratture di femore. La maggior parte dei pazienti che presentano condizioni generali complesse dal punto di vista internistico arrivano al Perrino. I dati rilevati dall’Age.Na.S., che sono quelli riportati al Ministero della salute e che quindi convergono nel PNE, sono depurati di alcune tipologie di fratture che non rientrano in questo conteggio (ad esempio pazienti che hanno più di una frattura, o ultranovantenni). Pertanto, il dato che arriva al Ministero, che è di 197, risulta falsato da questa scrematura che viene decisa al Ministero sulla base di determinati criteri. In realtà, al Perrino nell’anno 2018 sono state effettuate circa 300 operazioni alle fratture del collo del femore, quasi una al giorno. Per rispondere alla sua domanda, su una media di 1500 operazioni annue, stiamo parlando di circa il 20% del totale degli interventi. Una cifra altissima”.
Di quante unità è composto l’organico della sua divisione? Nell’organizzazione del reparto esistono chirurghi specializzati o ognuno di voi esegue questo tipo di interventi?
“Rispetto alla mole di lavoro che ogni giorno siamo chiamati a gestire, siamo rimasti davvero in pochi: soltanto otto chirurghi, due dei quali purtroppo, per motivi di salute o motivi di famiglia, non fanno lavoro notturno. Ma proprio in considerazione delle cifre che le ho elencato prima, non possiamo permetterci specializzazioni. Con questi numeri, è chiaro che tutti dobbiamo essere bravi a trattare tutto, soprattutto le fratture più frequenti, quale è quella del collo del femore. Ognuno di noi all’improvviso può essere chiamato a far fronte ad un’urgenza, perché, dovendo operare nelle 48 ore, da noi queste fratture sono tutte considerate urgenze. Forse con un organico più corposo avrebbe senso cominciare a pensare a specializzarsi su uno o su alcuni interventi, ma in queste condizioni è impensabile. Anzi, è doveroso per ogni responsabile di divisione di traumatologia e ortopedia addestrare tutto il personale a trattare chirurgicamente pazienti che presentano questa frattura così abituale. Io l’ho preteso appena arrivato al Perrino ed è una cosa di cui non mi sono mai pentito. Ciò non toglie che avremmo assoluto bisogno di un incremento dell’organico: è vero che consideriamo questo lavoro una missione, ma vorremmo non essere costretti a privare le nostre famiglie della nostra presenza così spesso”.
Nell’immaginario collettivo, sino a pochi anni fa la frattura del femore nell’anziano era una condanna a morte certa: sfatiamo questo mito infausto.
“Certo che lo sfatiamo! Operare in tempi brevi significa esattamente questo: salvare quante più vite possiamo. In questo, i protocolli a cui facevo riferimento prima ci aiutano e garantiscono al paziente un’aspettativa di vita maggiore: se un ottantenne arriva in reparto con una frattura di questo tipo, tutti, medici e infermieri, sappiamo cosa fare. Soprattutto, sappiamo che se non agiamo tempestivamente, rischiamo di perdere il paziente”.
Intervenire entro i primi due giorni dall’accesso in ospedale comporta un miglioramento non soltanto dei numeri relativi alla mortalità ma anche di quelli relativi alla ripresa post chirurgica?
“Esatto, significa migliorare le statistiche in entrambi gli aspetti. Per quanto riguarda la fase post intervento, l’obiettivo non è soltanto quello di minimizzare le complicanze legate all’allettamento ma anche quello di poter mettere il paziente in piedi in seconda giornata. Non facciamo miracoli, ma lavoriamo per mettere la persona operata nelle condizioni in cui era prima del trauma che le ha fratturato il femore. Sono contento di dire che spesso ci riusciamo”.
Per ciò che attiene la sua divisione, l’utenza del Perrino è circoscritta alla provincia di Brindisi o c’è anche afflusso di pazienti da zone più lontane?
“Sì, negli ultimi tempi abbiamo una discreta percentuale di persone che vengono da fuori. Ovviamente non succede per le fratture del collo del femore perché, operando 300 pazienti all’anno, onestamente ci bastano i nostri! Per altre patologie, come l’allungamento o la ricostruzione di ossa, o anche la frattura del calcagno, abbiamo un buon afflusso dalle altre province pugliesi, ma anche dalla Calabria e dalla Basilicata”.
Quando è rientrata l’emergenza dovuta alla pandemia da Covid-19, l’attività in elezione del reparto è ripresa regolarmente con gli interventi e le prestazioni ambulatoriali oppure non siete ancora riusciti a recuperare quanto avete dovuto sospendere?
“Le premetto che la traumatologia d’urgenza non si è mai fermata, anche se ovviamente, a causa del lockdown, abbiamo avuto meno traumi da strada. Poi, essendo il Perrino un ospedale Covid, in questi mesi abbiamo trattato chirurgicamente, con ogni accortezza possibile, numerose fratture in pazienti positivi al virus. Per ciò che attiene alle prestazioni ambulatoriali, abbiamo dovuto riorganizzare in funzione anti assembramenti tutta l’attività del reparto: abbiamo appuntamenti cadenzati, ad orari stabiliti, e non possiamo trattare più di un certo numero di pazienti ogni giorno, perché dobbiamo garantire la sanificazione degli ambienti. Per quanto riguarda la chirurgia d’elezione (ad esempio interventi per protesi d’anca o di ginocchio, che, tengo a dirlo, eseguiamo regolarmente), i pazienti vengono ricoverati in quella che noi definiamo stanza grigia, dove sono effettuati tutti gli accertamenti preoperatori, compreso il tampone per la ricerca del Covid. Soltanto se questo è negativo, i pazienti passano nel reparto di degenza in attesa di essere sottoposti all’intervento. Per i traumi abbiamo una procedura diversa: perché possano essere accolti in reparto, devono arrivare da pronto soccorso con tampone negativo. Diversamente, vengono extralocati nel reparto di malattie infettive, l’unico reparto Covid che al momento c’è al Perrino, ed è lì che attendono l’intervento. Ho spiegato nei dettagli il funzionamento del reparto perché credo che di questi tempi sia importante rassicurare i cittadini in merito alla sicurezza della divisione di Ortopedia e Traumatologia. Lavoriamo seguendo i protocolli, per cui non c’è motivo di temere di contagiarsi accedendo alle nostre prestazioni”.
A novembre dello scorso anno lei è stato sulle prime pagine dei giornali per un intervento di allungamento dell’anca su una quindicenne, precedentemente eseguito anche al Camberlingo di Francavilla Fontana. Non è consueta un’operazione di questo tipo nei nostri contesti: come ci è arrivato?
“Fa parte del mio bagaglio culturale e dei miei interessi dai tempi della specializzazione. Negli anni ho appreso la metodica e ho affinato la tecnica. Ho avuto la fortuna di avere dei maestri che mi hanno insegnato molto, anche in relazione a interventi non di routine come allungamenti e ricostruzioni di ossa. Per questo motivo mi sono appassionato agli studi di Ilizarov, il medico russo che per primo mise a punto il metodo che ancora adesso viene impiegato, pur con tutti i progressi che sono stati fatti. Per un ortopedico non può esistere sfida più grande di questa: generare l’osso dal nulla. Lo si fa non soltanto per dare una maggiore statura a pazienti che ne hanno bisogno, ma anche nei postumi di grandi traumi, nei quali si è obbligati a scegliere tra l’amputazione dell’arto o la ricostruzione. Se come medico hai questa freccia nella tua faretra, puoi dare al tuo paziente qualche opzione in più. Mi permetto però di precisare che è una metodica molto sacrificante, non soltanto per il paziente che vi si sottopone, ma anche per il medico”.
Per quali motivi?
“Perché significa mettere il paziente sul proprio stato di famiglia. E quindi prenderlo in carico e seguirlo passo per passo, anche a distanza di moltissimi anni dall’intervento. Se il medico che opera non è disposto a diventare per il suo paziente un punto di riferimento per tutta la vita, la metodica fallisce. Non puoi operare la persona e poi abbandonarla, devi accompagnarla gradualmente in tutto il suo percorso, anche se questo ti comporta sacrifici personali e familiari. I miei maestri non mi hanno insegnato esclusivamente le tecniche, ma anche la deontologia. Io e i miei colleghi viviamo la nostra professione come una missione e il risultato emerso dal PNE è figlio non soltanto della competenza, ma anche del nostro spirito di sacrificio”.