Se una partita di calcetto rende meno invisibili

La “Fuga per la vittoria” inizia una domenica pomeriggio con un originale convoglio guidato da una utilitaria, seguita da una decina di biciclette. Partono dal dormitorio comunale di via Provinciale per San Vito e con brevi tappe, per tenere il gruppo unito, arrivano sino agli impianti sportivi di via Ruggero de Simone, al rione Casale. Pronti a scendere in campo.
(Una settimana prima) Il pallone rotola spesso nel cortile del dormitorio, i ragazzi ci giocano a volte persino a piedi nudi, perché le scarpe servono per andare a lavorare e quasi sempre ne possiedono solo un paio. Molti di loro indossano vecchie magliette di calcio di squadre italiane, pescate nei bustoni pieni di roba usata depositati davanti all’ingresso delle parrocchie o nei contenitori stradali anti intrusione. Le riconosci dai vecchi sponsor scoloriti sul petto o dal nome di giocatori del passato stampato sulla schiena. Il calcio è il momento di fuga, dopo mezza giornata trascorsa nei campi e un lungo viaggio in bicicletta di andata e ritorno per raggiungere terreni distanti a volte anche 15 chilometri e due ore di viaggio dal dormitorio.
Luana Pirelli è la consigliera comunale forse più vicina alle sorti degli ospiti del casermone di via Provinciale San Vito. “Fuori da quel cancello noi siamo invisibili”, le ha detto un giorno uno degli ospiti, un ragazzo di 18 anni, indicando l’ingresso che dà sulla strada, la barriera tra la città e questo contenitore di storie e a volte di disperazione.
Quella frase le continuava a risuonarle nella testa perché anche lei ha un figlio di quell’età, che studia e la domenica gioca a calcetto con gli amici. “Samuel, perché non organizzi una partita, e inviti anche quei ragazzi che vivono dentro quella specie di lager? Potete fare due squadre e giocare insieme”.
“Integrazione” è un vocabolo che hanno inventato gli adulti. Tra ragazzi funziona in maniera diversa, non ci sono quasi mai barriere di pelle o di razza. E poi il pallone parla un linguaggio universale.
C’era quel film famoso nei primi anni Ottanta, “Fuga per la vittoria”, con la sfida su un campo di calcio tra i prigionieri di un lager nazista e i loro carcerieri. Quella era una partita per riottenere la libertà, gli uni contro gli altri, qui solo un modo per superare quel cancello senza rimanere invisibili.
Samuel parla bene l’inglese e una domenica pomeriggio si fa accompagnare dalla madre nel dormitorio. Drissa Kone, il leader della comunità di migranti, fa girare rapidamente la voce tra gli stanzoni del dormitorio. Chi vuole fare una partita di pallone? Età compresa tra i 18 e i 22 anni. I ragazzi spuntano un po’ alla volta: sono quasi tutti del Mali, del Gambia e del Burkina Faso. Non ci vuole molto per fare una squadra: “Domenica prossima, giochiamo nove contro nove”. Quelli sono felici. E nasce un gruppo whatsapp misto perché ognuno di loro magari non ha le scarpe ma possiede un telefonino collegato con internet, unico strumento per lavorare e restare in contatto con le famiglie, lontane più di cinquemila chilometri, in un altro continente e in un altro mondo.
C’è però un problema. Nessuno di loro possiede l’abbigliamento sportivo per disputare una partita. Luana Pirelli mette in moto la macchina della solidarietà: raccoglie le taglie dei ragazzi e fa un giro di telefonate che mobilitano una serie di volontari. In pochi giorni viene raccolto tutto ciò che serve: maglie, pantaloncini, calze. Per ognuno dei ragazzini del dormitorio viene preparato uno zainetto con un completo da calcio, un kit per la doccia e un ricambio pulito con felpa e biancheria. Ci sono persino le scarpe da calcetto, ma non per tutti.
(Il giorno della partita) Tra una domenica e l’altra per ci sono state giornate di lavoro faticoso nei campi, sveglia alle quattro del mattino, chilometri in sella alla bici, rientro dodici ore dopo, stremati. Ma per tutti il pensiero è al giorno della partita, anche quella su un campo sì, ma di calcio. Samuel arriva alle 18.30 in auto, accompagnato dalla madre. Due ragazzi del dormitorio siedono sui sedili posteriori, gli altri organizzano un piccolo corteo con le stesse bici che usano per andare in campagna. Ma vuoi mettere? Ci sono un paio di chilometri di strada, dal dormitorio dagli impianti della Nitor, sulla strada per l’aeroporto. L’auto procede lentamente per non perdere nessuno. Quelli del dormitorio si portano dietro anche qualche “tifoso”, pure lui in bici.
Finalmente sul campo. Ci sono Aziz, Omar, Keta, Abdul, Kelajo, Manga, Waly Musa, Sadio e Karj. Di là, con Samuel, Giulio, Angelo, Paolo, Lorenzo, Francesco e Andrea. Ma no, non “bianchi contro neri”. Si fanno due squadre miste, senza arbitro. Un’ora a correre a perdifiato e a ogni gol abbracci, pacche sulla schiena, scherzi: qualsiasi differenza annullata all’istante. La festa prosegue negli spogliatoi, la doccia, il piacere di trovare biancheria pulita. Non è sempre possibile per loro averla: in lavanderia pagano quattro euro per lavare e quattro per asciugare, a volte i soldi non bastano. E le docce, nel dormitorio, hanno l’acqua calda solo per i più rapidi. Lo scaldabagno esaurisce presto le sue scorte.
Si torna a casa, o meglio metà vanno a casa, gli altri nel dormitorio. Sono ragazzi però. Il pensiero torna alla partita, ai gol segnati e a quelli sbagliati, magari qualcuno non ci dormirà la notte. Nella sua stanzetta, o nella brandina del dormitorio. Si sono già dati appuntamento, per la prossima partita. Altri ragazzi vogliono giocare, le squadre aumenteranno.
Ne parlano alle quattro del mattino ancora entusiasti, quando inforcano la bici e si avviano al lavoro. E attraversano quel cancello, sentendosi forse un po’ meno invisibili.