Da Copenaghen a Boston: un giovane scienziato brindisino che ama le nanotecnologie


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Di Marina Poci per il numero 421 de Il7 Magazine
Che bimbo è stato? Il classico futuro scienziato che già da piccolino è attratto dal microscopio?
“Macché, sino ai sedici anni ho praticamente soltanto giocato a basket. Le scienze mi limitavo a studiarle a scuola”.
Poi cos’è successo?
“Al penultimo anno di liceo scientifico, il Fermi, sono andato a studiare negli Stati Uniti, in Michigan, con un programma di scambio. Quando sono rientrato, avevo le idee più chiare: diplomarmi e frequentare l’università all’estero”.
A pochi giorni dalla discussione (che lui, più professionalmente, chiama “difesa”) della tesi di dottorato, Matteo Tollemeto, 27 anni, “brindisino dei Cappuccini” (così si definisce), biotecnologo nel campo delle nanotecnologie, compare sui profili social della Regione Puglia per la sua partecipazione, lo scorso luglio, al Lindau Nobel Laureates Meeting di Chimica, manifestazione in cui scienziati di diverse generazioni, provenienze e culture si incontrano per fare rete e confrontare idee, progetti e ricerche. Tollemeto è stato uno dei 45 giovani ricercatori (su 600 partecipanti all’evento) scelti per presentare il proprio lavoro a una platea di Premi Nobel da far impallidire Stoccolma. Poi, dopo la discussione della tesi, partirà per uno dei templi mondiali della ricerca scientifica, il Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Cambridge, cittadina universitaria nell’area metropolitana di Boston, per un progetto di quattro anni sostenuto dalla Technical University of Denmark (DTU) di Kongens Lyngby, polo di eccellenza a un centinaio di chilometri dalla capitale danese Copenhagen, in cui vive.
Tra lo scetticismo di alcuni docenti e i timori dei genitori, Tollemeto a 16 anni è partito per frequentare un anno di liceo in una scuola vicina a Detroit, ospite di una famiglia americana che aveva aderito al progetto di scambio culturale. Lì, il giovane brindisino, figlio unico, ha trovato due fratelli e una sorella con i quali i rapporti non si sono mai interrotti (“ci vediamo periodicamente, sia negli Usa che qui a Brindisi”), una lingua da imparare velocemente… e la neve (“mai vista così tanta, un intero inverno sotto zero, un sogno per chi è cresciuto vicino al mare”).
Tornato in patria, si è concentrato sulla scelta universitaria, optando, dopo aver vagliato i nostri tre Politecnici, per un ateneo tedesco di scienze applicate, a Kleve: “Dieci anni fa in Italia non c’erano programmi di Ingegneria Biomedica interamente in inglese, così sono emigrato di nuovo. L’obiettivo era quello di avere una formazione generale, per poi specializzarmi una volta avute le idee più chiare”. Da allora Tollemeto è non si è più fermato: Erasmus in Francia, tesi triennale in Svizzera, laurea magistrale in Danimarca in Nanotecnologie, dove è rimasto come ricercatore. “Ho iniziato a studiare senza sapere cosa veramente mi piacesse, piano piano l’ho scoperto”.
Le piacciono le nanotecnologie.
“Dopo un bel po’ di esperienza, penso di poter dire che mi piacciono più di tutto il resto”.
Ma sempre meno del basket…
“Questo è certo! Orgogliosamente Aurora Brindisi! Ci ho giocato sino a quando sono rimasto in Italia. E ancora adesso, quando c’è la Valtur Brindisi, il mio mondo si ferma. Guardo le partite in diretta streaming dalla Danimarca e in quelle ore non esiste niente altro”.
Qual è il suo campo di ricerca?
“In questi anni ho lavorato sull’utilizzo di minuscole strutture, le nanoparticelle, per sviluppare formulazioni orali capaci di resistere al passaggio nello stomaco e nell’intestino, quindi attraversare barriere biologiche e rilasciare i farmaci esattamente dove serve che arrivino. È l’argomento della mia tesi di dottorato, che ho presentato davanti ad una commissione di scienziati internazionali”.
Un esempio?
“Pensiamo all’insulina: attualmente si assume con iniezione sottocute. Bene, l’obiettivo di ogni casa farmaceutica è creare un farmaco orale con le stesse caratteristiche, cosa che semplificherebbe di molto la vita dei pazienti. Il problema è che sviluppare un medicinale che attraversi lo stomaco e l’intestino conservando intatte le proprietà terapeutiche non è semplice, perché gli acidi sono potenzialmente in grado di distruggere le molecole e vanificare l’uso. Io studio come aiutare il farmaco a oltrepassare stomaco e intestino senza perdere efficacia. Non per l’insulina, ma per i vaccini”.
Al MIT come è arrivato?
“L’università in cui lavoro, che ringrazio per la fiducia con la quale continua a sostenermi, ha deciso di scommettere su di me. Il ragionamento del Governo danese è molto semplice: “ti paghiamo per andare a imparare qualcosa fuori, poi torni e continui a svilupparla qui da noi”. Quindi per tre anni sarò a Cambridge e poi finirò la ricerca nell’ateneo che mi finanzia con una borsa di studio”.
Su cosa lavorerà al MIT?
Lavorerò su un nuovo tipo di vaccino che usa le nanoparticelle per riuscire a passare attraverso il muco che normalmente blocca i farmaci e i vaccini. In questo modo potremmo stimolare meglio le difese proprio nei “luoghi” da cui i virus entrano, ad esempio nei polmoni o nell’intestino, e rendere i vaccini più efficaci”.
Come valuta le prospettive del suo campo di ricerca?
“Secondo me sono molto buone. Tenga conto che nella cura del cancro le nanotecnologie sono già usate con ottimi risultati, ma non ancora con formulazioni orali. C’è ancora tanto da fare, ma sono sicuro che ci arriveremo”.
Com’è la vita di un ricercatore italiano all’estero?
“Non tutta rose e fiori: vedi i tuoi genitori due volte all’anno, se perdi un parente non puoi essere al suo funerale, non puoi festeggiare il matrimonio del tuo migliore amico, a meno che non capiti nel fine settimana”. Amo il mio lavoro e in questi anni ho vissuto bene ovunque, ma non posso nascondere che ci siano cose che continuano a pesarmi”.
Cosa significa per lei essere un giovane scienziato nel 2025?
“Secondo me, è stupendo! Abbiamo a disposizione risorse immense e possiamo immaginare di cambiare in meglio la vita delle persone. A fine 2020 abbiamo avuto i vaccini a mrna perché purtroppo c’è stata una pandemia, ma su quei vaccini tanti scienziati ci lavoravano da almeno dieci anni prima. Quando sono stati approvati, mi sono messo nei loro panni e ho condiviso la loro gioia: deve essere stupendo vedere come qualcosa su cui ti sei consumato in laboratorio per metà della tua vita diventa uno strumento di salvezza per l’umanità”.
Cos’è che le piace di più della sua vita di ricercatore?
“Quello che faccio in laboratorio mi piace ed è fondamentale. Ma quello che mi gratifica di più è provare a spiegare a chi è completamente a digiuno di nozioni scientifiche perché quello che faccio è importante. O perché potrebbe esserlo. Non tra due giorni o tra un mese, ma tra dieci anni magari. Spesso bisogna aspettare a lungo prima che un’idea funzioni”.
Qual è la qualità migliore dello scienziato?
“Me ne vengono in mente due. Sicuramente la prima è la pazienza. In un dottorato di tre anni si può partire con dieci idee valide, ma arrivare a svilupparne soltanto una. È nell’ordine delle cose, ognuno di noi sa che ogni mattina, entrando in laboratorio, qualcosa potrebbe andare storto. L’importante è non perdere la fiducia che il giorno dopo andrà meglio. Se ci si spazientisce, non si arriva lontano. Una qualità che non vale soltanto nella scienza, ma anche nei rapporti umani che nascono sugli ambienti di lavoro. E, a proposito di questo, penso che la seconda qualità che molto utile allo scienziato dei nostri giorni sia la capacità di adattamento: il modo in cui mi rapporto con un professore americano è diverso da quello con cui mi rapporto a un professore giapponese o svizzero. Se si perdono di vista le differenze tra le persone e il loro background, difficilmente si riuscirà a lavorare bene in team”.
Che ne è della curiosità?
“Deve esserci, ma non può bastare. Io penso di appartenere a quella categoria di scienziati che, più che sperare nella scoperta eccezionale, punta a spiegare il perché delle cose e a migliorare le cose che già esistono. Se capisco perché e come il vaccino contro il Covid funziona, posso utilizzare quel meccanismo per svilupparne uno contro un’altra patologia, l’HIV per esempio”.
Ha imparato il danese?
“No! Ci ho provato, ma preferisco alleggerire il cervello quando esco dal laboratorio: passeggio o faccio sport”.
In questi dieci anni di assenza, come ha visto cambiare Brindisi?
“Io la trovo sempre molto bella. Ma piacerebbe che si puntasse ancora di più sul turismo, che è la nostra forza. Si dovrebbe lavorare per cercare di migliorare sempre più l’esperienza del turista, da quando esce dall’aeroporto, all’arrivo, sino al momento della partenza. Forse su questo c’è ancora da migliorare”.
Tra dieci anni, come e dove si immagina?
“Mi sta chiedendo se avrei voglia di tornare in Italia? Sì, purché mi venga garantita la stessa qualità di lavoro che ho qui in Danimarca. Per il resto, il mio obiettivo è di restare in ambito universitario e di diventare professore”.
Se un liceale brindisino le chiedesse un consiglio sugli studi all’estero, cosa gli suggerirebbe?
“Inizialmente un progetto di scambio già durante le superiori, per capire se gli piace stare fuori dall’Italia. Poi sicuramente, se ha scelto un’università italiana, gli consiglierei un Erasmus il prima possibile, non all’ultimo anno: prima si fa, più è formativo. Se invece sta per diplomarsi, gli direi di non avere fretta. In Italia non è molto diffuso il concetto di anno sabatico, ma io ci credo profondamente. Ho colleghi e amici che dopo il diploma si sono fermati per capire cosa fare e dove farlo, e ora sono professionisti affermati. Se un ragazzino di diciotto anni non ha le idee chiare su cosa fare da grande, è giusto che rifletta, invece di fare la scelta sbagliata. Per cui gli direi che non è necessario iscriversi all’università appena terminato il liceo: viaggia, impara bene l’inglese e documentati. Meglio perdere un semestre o un anno, che passare tutta la vita a rimpiangere di avere studiato qualcosa che non appaga”.