Fantasmi e lampini – Racconti al balcone

La cassiera è perplessa. Anche io. Ma la vecchietta insiste nel chiedere dove siano i “lampini” e sta cominciando a spazientirsi. Poi un’illuminazione: sono i ceri, quelli che si accendono davanti alle foto dei defunti. I tempi cambiano e “dolcetto o scherzetto” ha sostituito il reale significato di questi giorni, cioè onorare chi non c’è più. Mi ricordo i preparativi, con la pulizia e magari una mano di calce alle pareti della tomba. La scelta della tovaglia più bianca e meglio ricamata per l’altare e la conta dei vasi, con qualche sostituzione di quelli più vecchi e sbreccati. Erano i tempi del lutto obbligatorio total black, seguito dal grigio che si schiariva via via fino al trascorrere dell’anno canonico. E delle sedie allineate sui viali del cimitero, come si vedono ancora d’estate, qualche volta, davanti alle porte dei bassi. Il giudizio inclemente della comunità si sbizzarriva persino in quel luogo di pace e quiete. Guai ad avere un fiore di meno o una foto impolverata. Quando c’era ancora mia madre a vigilare sulle tradizioni familiari, la accompagnavo ogni settimana. Quattro fermate, quattro mazzi di garofani, quattro ceri giganti, perché durassero sette giorni. Con la bizzarria che caratterizza i vivi, ognuno aveva deciso una ubicazione diversa, per la dimora eterna. La sosta più lunga era nella cappella della sua famiglia. Ogni volta si soffermava sulla frequenza del numero dieci nelle date incise sul marmo. La sorte non l’ha smentita, riservandole lo stesso onore. Quando ero più giovane, anche io mi ero scelta una adeguata collocazione futura. Fra gli ufficiali della Benedetto Brin, che non sono nella nuda terra come i marinai semplici, ma hanno una specie di mausoleo.
C’è un campo riservato a loro, vite spezzate nel nostro porto. Di solito è trascurato, quasi dimenticato, ma nei giorni delle commemorazioni istituzionali lo tirano a lucido. A volte ridipingono i nomi sbaditi sulle lapidi. Ci sono posti vuoti. Una compagnia di classe: uomini d’altri tempi, con principi d’onore, eleganti nelle loro divise bianche. Sarei stata bene, un eterno giro di valzer al ballo delle debuttanti. Ebbene sì. Richard Gere, ufficiale e gentiluomo, docet. Adesso ho cambiato idea, non avendo alcuna certezza di poter tornare in forma spettrale all’età preferita e non a quella della dipartita. Mi piacerebbe intorno ai trent’anni. Nel pieno fulgore della femminilità, né troppo giovane e immatura e neanche inacidita dal tempo. Forse dovrei farmi tramutare in cenere e destinare al riciclo marittimo. Non sparsa sulle acque ma affondata nell’urna. Mi immagino già il fortunato sub che la ritroverà, incrostata di coralli e cozze patelle, e la riporterà in superfice ritenendolo un reperto archeologico. E poi…sorpresa! Altro che scherzetto.
Il 2 novembre c’era il giro d’onore. Oltre alle sedi consuete, si visitavano gli assenti minori: parenti lontani, amici, semplici conoscenti. Uno stelo anonimo infilato fra i fiori formali. Un saluto ai congiunti, con baci e abbracci di circostanza e “com’era” sparsi. Tutti bravi, tutti belli, tutti buoni. Per un giorno, la memoria preferiva ricoprire di rosa i ricordi. Ora ci vado meno. Mi dispiace dirlo, ma accendere un “lampino” è diventato un lusso, soprattutto se ne serve più di uno. Perché, a fare meno tappe scegliendo solo i cari più cari, mi sembra di fare un torto agli altri. Che sono diventati tanti. Troppi. Come la gente, in questi giorni. Il cimitero è un luogo intimo, non ama il vocio, le chiacchiere, l’apparenza. Preferisce lo stormire delle foglie e i passi cadenzati di chi lo attraversa in silenzio, riflettendo sull’esilità dell’esistenza. “La vita dei morti è nel ricordo dei vivi” declamava Cicerone. E incitava il Senato a costruire mausolei e monumenti in onore di Servio Sulpicio, per non dimenticarlo. Generazioni di studenti di latino hanno reso immortali entrambi. Io, invece, non credo che la sopravvivenza sia nella cosciente rievocazione quotidiana, quanto piuttosto nelle sensazioni casuali. Le conosco bene.
Mi capita di vedere una scatola di cioccolatini e di pensare di comprarla per mio padre. Come se fosse ancora lì, a fumare una sigaretta mentre guarda il telegiornale con le parole crociate davanti. Mi accoglieva con un buongiorno, ogni mattina. Io neanche rispondevo, assonnata e contrariata dalla levataccia. Allora lo ripeteva, esigendo una risposta. Oppure, la sera, qualche volta, prendo il telefono per chiamare mia madre. Ma la casa non esiste più. Ora ci abita una piccola Lilli. Lo stesso nome. Al momento della vendita, questa coincidenza mi sembrò un segno, una specie di approvazione dall’altro mondo. Le risate dei bambini hanno preso il posto del dolore. Era giusto così.
Un profumo. Il sapore di un cibo che mi evoca un momento particolare. Una voce che pronuncia il mio nome. Quella voce, riconoscibile dopo tanti anni. La sento distintamente. Nel momento in cui sto per addormentarmi, al confine fra veglia e oblio. Forse si crea un varco, una fragile soglia fra due mondi che consente un contatto. Che cosa vorrà dirmi? Un rimprovero? Con quel tono perentorio che le mamme usano quando un figlio sta facendo qualcosa di sbagliato. Oppure un incoraggiamento, un’esortazione. Me lo chiedo, quando succede. Di una cosa sono certa. Non esistono gli spettri malevoli di Halloween, ululanti nei loro lenzuoli bianchi. Non trascinano catene, non terrorizzano i bambini.
I fantasmi sono anime gentili, leggere. Fluttuano nella nostra mente e, a volte, compaiono così, all’improvviso. Apparizioni benevole che ci legano al nostro passato e che fanno parte del nostro presente. Non hanno bisogno di fiori, per vivere, e neanche di “lampini”. Sono piccole fiammelle sempre accese nei nostri cuori.