Trent’anni fa la morte del poliziotto penitenziario Carmelo Magli: un dolore mai spento


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Di Marina Poci per il numero 377 de Il7 Magazine
“Kalòs kai agathòs”, così era descritto l’eroe dagli antichi Greci: bello e buono doveva essere colui che veniva ritenuto degno di tutti gli onori, nella convinzione che il perfetto ideale di bellezza esteriore coincidesse con il supremo modello di giustizia e virtù. Ed è così che esordisce la signora Anna Maria quando le chiediamo di raccontare chi fosse suo marito Carmelo Magli, agente di Polizia Penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Taranto che adesso porta il suo nome, morto a soli 24 anni il 18 novembre del 1994 in un agguato tesogli dalla criminalità organizzata jonica mentre usciva dal carcere al termine del suo turno di lavoro, per rientrare nella propria abitazione di Francavilla Fontana: “Era bello e buono, mio marito. Alto più di un metro e ottanta, fine, gentile. Amava la sua divisa e la sua famiglia e aveva un grande senso del dovere e della giustizia” dice con il suo timbro dolce e quieto, che stride con le grida allegre di un bimbo, distintamente percepibili in lontananza. Da quando, una notte d’autunno di tre decenni fa, la sua vita di giovane moglie e madre è stata toccata dalla tragedia di perdere il compagno che aveva scelto ad appena diciannove anni e che le aveva regalato le piccole Cinzia e Lucia, è la prima volta che accetta di parlare di suo marito con i mezzi di informazione (“Mi hanno invitato tutti, anche la Rai. Ma non ho mai trovato il coraggio di aprirmi davanti alle telecamere. Forse per telefono è diverso…”, prova a spiegare con semplicità).
Nel trentennale di quell’agguato, il 18 novembre Francavilla ha ricordato Carmelo Magli con tutti gli onori che si convengono ad un “eroe”, sempre che l’espressione non risulti antiquata o inutilmente enfatica.
Dietro l’iniziativa c’è proprio Cinzia, la figlia maggiore dell’agente Magli, di professione poliziotta, in servizio presso la Questura di Brindisi. Quando prende la parola, la sua voce, al contrario di quella di sua madre, è stentorea, fiera, decisa. Racconta di avere avvicinato il sindaco Antonello Denuzzo il 29 settembre scorso, in occasione delle celebrazioni per il santo patrono della Polizia di Stato, San Michele Arcangelo. Quel giorno Cinzia Magli era di rappresentanza, ma ha lasciato per un attimo i suoi colleghi e ha chiesto al primo cittadino di poter scambiare qualche parola: “È stato immediatamente disponibile e ha coinvolto tutta l’amministrazione comunale nell’organizzazione dell’evento. La cosa che mi ha fatto più piacere, soprattutto perché da due anni sono mamma, è che siano state presenti anche delle scolaresche: alcuni bambini hanno letto un messaggio molto commovente, che mi ha fatto capire quanto la breve vita di mio padre possa essere di esempio per le giovani generazioni. È esattamente per questo che ho lasciato da parte la mia timidezza e mi sono esposta: per la volontà di fare sapere a questa città che mio padre è esistito e ha ancora una storia importante da raccontare”.
Dopo trent’anni di dolore vissuto in maniera intima e privata, per Cinzia era arrivato il momento che il sacrificio di Carmelo Magli, riconosciuto dal Ministero dell’Interno Vittima del Dovere ai sensi della Legge 466/1980 e Medaglia d’Oro al Merito Civile alla Memoria, fosse reso noto a tutti i francavillesi, non soltanto a quelli che l’hanno conosciuto personalmente e lo ricordano come “un bravo ragazzo, dedito al lavoro e alla famiglia”.
Quando le facciamo notare che il nome di Carmelo Magli è inserito nell’elenco delle vittime innocenti di mafia a cura dell’associazione Libera fondata dal sacerdote antimafia don Luigi Ciotti e che viene regolarmente letto ogni 21 marzo, alla manifestazione nazionale che culmina nella Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, Cinzia si meraviglia: “Non lo sapevamo, nessuno ha mai pensato di dirci niente. Così come non sapevamo che a Francavilla c’è una via che porta il nome di mio padre, pensi che l’abbiamo scoperto soltanto perché ci siamo passate per caso”, commenta, per poi aggiungere con orgoglio “Il 21 marzo è il mio compleanno: significa che ogni anno l’ho sempre festeggiato con papà anche senza saperlo. Una bella coincidenza…”.
Come si legge nella motivazione del conferimento della Medaglia d’Oro al Merito Civile, la situazione che il giovane agente viveva nel carcere di Taranto era particolarmente difficile “per la presenza di molti detenuti appartenenti a importanti cosche mafiose pugliesi e calabresi, che cercavano di condizionare lo svolgimento dei compiti di vigilanza”: di quel rapporto complicato, al limite della disfunzionalità, tra agenti e detenuti, Magli era ben consapevole. Avendo lavorato nei suoi primi anni di servizio nella casa circondariale di Bologna, registrava con piena cognizione l’impietoso confronto tra le due realtà: il rispetto e la deferenza di cui lui e i colleghi godevano nella città felsinea, i tentativi di prevaricazione e delegittimazione quotidianamente subiti nel capoluogo jonico. Ne parlava occasionalmente con la moglie, anche se non le aveva mai confidato episodi specifici di minacce o intimidazioni a lui rivolte direttamente.
Ma quelli di Carmelo Magli, a Taranto, erano gli anni dei sanguinari fratelli Modeo (Riccardo, Claudio e Gianfranco), appartenenti all’omonimo clan, egemone dapprima nel contrabbando di sigarette, nelle estorsioni, nell’usura e e nel gioco d’azzardo clandestino e poi, dopo una guerra fratricida con il figlio di primo letto del padre, Antonio, nel traffico di sostanze stupefacenti. Ed erano gli anni dell’inchiesta Ellesponto, a cui seguì il maxiprocesso ai diversi gruppi della criminalità organizzata tarantina. Magli morì per mano degli uomini del clan Perelli, trucidato a colpi ravvicinati di mitraglietta nei pressi di San Giorgio Jonico, a pochi chilometri dall’istituto di pena da cui era appena uscito. Non era la vittima predestinata di quell’agguato, ma il bersaglio casuale della scellerata volontà di affermazione di malavitosi in cerca, nel carcere, del consenso e della obbedienza di cui godevano fuori. Forse nemmeno avrebbe dovuto morire, ma soltanto essere gambizzato, quel giovane in divisa che non vedeva l’ora di tornare a casa dalla sua famiglia: i vertici del sodalizio criminale avevano stabilito che sarebbe stato colpito il primo poliziotto penitenziario che fosse smontato dal turno e uscito, come monito per tutti gli altri agenti, come avvertimento affinché si piegassero e garantissero condizioni di detenzione meno severe, più accomodanti. Questa fu la colpa di Carmelo Magli: voler arrivare in fretta a casa, anche stanco e assonnato com’era, trovare conforto nell’abbraccio rassicurante di sua moglie, rimboccare le coperte a Cinzia, tre anni e mezzo, e Lucia, un anno e pochi mesi.
“Carmelo preferiva rientrare, anche a notte fonda. I suoi colleghi, dopo il turno 16-24, restavano a dormire in carcere, ma lui si metteva in macchina e tornava. Pensi com’ero ingenua: per me il pericolo più temuto era la strada, il fatto che potesse addormentarsi al volante. Non immaginavo che il suo lavoro fosse pericoloso sino a questo punto, forse nemmeno lui immaginava un rischio del genere. E soprattutto, io non avrei mai potuto pensare ad una morte così assurda. Ucciso perché fu il primo a uscire dal carcere”.
Quella notte Anna Maria non dormì e non pianse: attese l’arrivo del marito sinché il cuore le resse e poi, quando capì che non sarebbe tornato, si preoccupò di mettere al sicuro le sue bambine, affidandole al fratello. I colleghi del marito non le dissero immediatamente la verità (“Carmelo è caduto, ha avuto un incidente, ora è in ospedale”, le mentirono, in attesa che arrivassero i suoi famigliari, che non fosse da sola a sopportare il peso di quella notizia che l’avrebbe schiantata). Sebbene in qualche angolo della sua mente coltivasse la speranza residua che quel presentimento di morte fosse soltanto il frutto del suo ancestrale timore di restare da sola, a quella telefonata Anna Maria sentì calarle addosso il freddo dell’ingiustizia. Ebbe la percezione netta che la sua vita, da lì a pochi istanti, si sarebbe frantumata. Che la sua “favola d’amore”, così la chiama, stesse per concludersi nel modo più tragico possibile. E così fu: “Appena le bambine uscirono da casa, e soltanto allora, diedi sfogo alla mia disperazione. Le mie figlie non mi hanno mai vista piangere, le mie lacrime sono state per me sola. All’inizio ho detto loro che papà era dovuto partire all’improvviso per lavoro, poi – gradualmente – ho spiegato che non lo avrebbero più rivisto, che era diventato un angelo, che era in cielo con Gesù, e ho cominciato a portarle al cimitero. Ho cercato di proteggerle proibendo a tutti di parlare della morte di mio marito in loro presenza. E loro hanno cercato di proteggere me, non chiedendo. Avevano capito cos’era accaduto, ma non hanno mai fatto domande precise. Quando aveva circa dieci anni, Lucia trovò gli articoli di giornale che avevo conservato. Lesse tutto con attenzione, poi li mise a posto senza dirmi niente. L’ho scoperto tempo dopo”.
Anna Maria e le sue figlie, vittime collaterali di quella mitraglietta infame, hanno sofferto e continuano a soffrire, ognuna in modo diverso. È oggi una donna di poco più di cinquant’anni, che nel tempo ha introiettato il lutto al punto da restarne, in alcuni periodi, sopraffatta: ha seguito le prime fasi del processo di primo grado, poi non se l’è più sentita di presenziare alle udienze. Cinzia ha fatto della giustizia la sua ragione di vita, indossando una divisa diversa da quella del padre, ma onorandone la memoria tutti i giorni, ogni volta che l’ultimo bottone della sua giacca da poliziotta entra nell’asola e lei esce da casa pensando all’ultima volta che quel gesto l’ha compiuto suo padre: dentro di lei la rabbia e il dolore vanno ancora a braccetto, a volte prevale l’una, a volte l’altro. Lucia, che somiglia moltissimo a Carmelo, ha con le divise un rapporto conflittuale, preferisce evitarle. Dal padre ha ereditato l’amore per la tecnologia e la fotografia ed è così, condividendone quella passione, che lo sente vicino (“prima di morire, papà aveva acquistato un modello nuovissimo di videocamera, gli piaceva documentate con video e foto la nostra vita familiare”, racconta Cinzia).
Per la morte di Carmelo Magli la Corte d’Assise di Taranto comminò tre ergastoli: uno dei condannati, Francesco Barivelo, a marzo 2021 fu scarcerato e sottoposto agli arresti domiciliari a causa del rischio sanitario dovuto all’emergenza Covid.
In quella occasione Lucia Magli sbottò con un post su Facebook, garbato ma duro, con il quale per la prima volta la famiglia prese pubblicamente posizione sull’omicidio di Carmelo: “Ho 27 anni e da tutta la mia vita vivo senza sapere cosa significa avere un padre, non ce l’ho e non l’ho mai avuto, perché 26 anni fa lo hanno ucciso, me lo hanno portato via. Sono stati dei criminali, gente senza scrupoli che ha deciso di rovinare la vita di una famiglia per sempre. Ora, dopo così tanto tempo, mi ritrovo questa notizia….“Scarcerato” “A piede libero” “Ritorna a casa”. Con tutta la fatica del mondo, con il cuore che mi si contorce e le lacrime che scendono giù, mi chiedo solo perché? Che significa questo? Come è possibile? Non voglio dare la colpa a nessuno, non voglio attaccare le istituzioni, non voglio pensare che viviamo in un paese ingiusto, voglio solo capire cosa sta succedendo! Che diritto ha questa persona di vivere in libertà quando mi ha privato di mio padre, ha tolto a me, mia madre e mia sorella la possibilità di essere felici. Perché vi assicuro, certe cicatrici rimangono a vita e in ogni giorno, in ogni momento felice e in ogni contesto la mancanza si sente e nessuno mai potrà ricoprire questo dolore. Questo però non conta di fronte alla libertà di questo individuo, che sembra avere molti più diritti di tanta gente perbene. Io e la mia famiglia vogliamo delle spiegazioni perché questo ci sembra davvero troppo e, anche se mio padre non me lo ridarà più nessuno, meritiamo che la giustizia riconosca il giusto posto dei colpevoli”.
Poi Barivelo, mesi dopo, è rientrato nella casa circondariale di Sulmona, dov’è tuttora detenuto. Ha già scontato una parte significativa della condanna, per cui è possibile che tra qualche anno inizi a godere dei benefici di legge. “Non sarà un “fine pena mai”, il suo. Il nostro sì, lo è da trent’anni”, commenta con amarezza Cinzia Magli.
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