Di Marina Poci per il numero 419 de Il7 Magazine
La pratica diffusa, e per certi versi discutibile, di concedere in comodato gratuito, ovvero di locare per canoni irrisori, locali annessi o prossimi alla farmacia per l’attività ambulatoriale di medici non è vietata per legge… a meno che non sia dimostrato che, dietro quella pratica, vi sia un patto corruttivo. Una prova che la Procura di Brindisi, rappresentata nella fattispecie dal sostituto procuratore Raffaele Casto, non ha raggiunto. A parere della Giudice dell’udienza preliminare Barbara Nestore, si chiude dunque con una sentenza di non luogo a procedere, perché il fatto non sussiste, la vicenda giudiziaria di 21 persone, tra medici e titolari di farmacie (tre a Brindisi, una a Francavilla Fontana), che secondo l’accusa si sarebbero resi responsabili, tra il 2009 e il 2020, di un presunto scambio di favori che ai farmacisti avrebbe assicurato un aumento della clientela (perché i medici avrebbero indirizzato i pazienti, per l’acquisto dei medicinali, verso quelle specifiche farmacie) e ai medici avrebbe garantito la possibilità di ridurre, o azzerare, i costi d’affitto per gli studi.
Ebbene, il tacito accordo da cui sarebbe scaturito questo sistema di favori “incrociati”, che vedrebbe studi medici a costo zero o quasi, in cambio di un flusso costante di clienti ad alimentare il giro d’affari delle farmacie, di fatto, all’esito del procedimento penale brindisino, non esiste.
Dunque nessun processo per i 14 medici e i 7 farmacisti per i quali la Procura aveva insistito nel chiedere il rinvio a giudizio e i cui difensori avevano chiesto il proscioglimento.
Il reato di cui gli imputati rispondevano è quello di corruzione per l’esercizio della funzione, che si verifica quando un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio riceve (o accetta la promessa di ricevere) denaro o altri vantaggi e utilità non per compiere un atto specifico contrario ai doveri d’ufficio (come nella corruzione “propria”), ma semplicemente per esercitare le proprie funzioni in favore del privato. Si tratta, in buona sostanza, di uno scambio tra denaro e/o utilità e l’esercizio (anche futuro e non attuale) della funzione pubblica a disposizione di un interesse privato.
In questo caso, i medici di Medicina Generale convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale, che emettono prescrizioni a carico di quel Servizio, sono a tutti gli effetti pubblici ufficiali. Ecco perché costituirebbe una stortura nella fruizione dei servizi pubblici, qualora fosse provata, la circostanza che i medici incoraggino e orientino i propri pazienti ad acquistare i farmaci in quelle farmacie i cui titolari mettono loro a disposizione immobili concessi in comodato d’uso gratuito o locati a canoni lontanissimi dai prezzi di mercato: verrebbe in quel caso irrimediabilmente compromessa, da logiche estranee al rapporto fiduciario con il proprio medico, la libertà del paziente di servirsi in una farmacia piuttosto che in un’altra. Ma verrebbe anche leso il principio di imparzialità dell’azione amministrativa e la fiducia della collettività nell’operato dei pubblici ufficiali, indebitamente influenzati nel proprio processo decisionale.
Il procedimento brindisino era partito con l’attività avviata dal Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Brindisi, che, unitamente ai Carabinieri del Nucleo anti sofisticazioni e sanità (NAS) dei Carabinieri di Taranto, avevano proceduto prima acquisendo il numero di ricette spedito dalle quattro farmacie i cui titolari risultavano aver messo a disposizione dei dottori i locali per l’esercizio della professione, e poi incrociando quel dato con il numero delle ricette emesse da medici di base aventi studio nelle immediate vicinanze di quelle stesse farmacie.
Ad esempio, con riguardo ad una farmacia brindisina, la GdF aveva rilevato come, su un totale di 4770 ricette (il periodo di riferimento era il mese di marzo 2020), 2101 erano emesse da medici che avevano studio sulla stessa via, a pochi numeri civici di distanza, in locali concessi in comodato d’uso gratuito da una società in accomandita semplice facente capo al farmacista.
Il metodo di indagine, allargato ad altre due farmacie brindisine e ad una francavillese, aveva indotto la Procura a ipotizzare che vi fosse un patto delittuoso in osservanza del quale i medici avrebbero indotto i propri pazienti ad acquistare i farmaci in quelle farmacie i cui titolari avevano messo a disposizione dei camici bianchi immobili di loro proprietà gratuitamente o in locazione a canoni irrisori (in un caso addirittura 60 euro al mese).
Un patto per provare il quale, nella fase delle indagini preliminari, la Procura aveva domandato al gip Maurizio Saso di disporre attività di intercettazione: l’istanza era però stata rigettata alla luce del fatto che, al tempo della richiesta, secondo Saso non erano stati raggiunti dagli investigatori i gravi indizi di reato e la indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini, che la legge impone per autorizzare l’attività captativa. A parte questa considerazione di carattere procedurale, il Gip, entrando nel merito per quanto di sua competenza, aveva poi inquadrato la circostanza che i medici di base convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale fruissero a condizioni di favore di immobili ubicati nelle immediate vicinanze di farmacie (e riconducibili a farmacisti) in una logica di libero mercato, finalizzata eventualmente a offrire servizi più agevolati e ravvicinati alla clientela, soprattutto quella più fragile (gli anziani, ad esempio).
Un argomento che i difensori degli indagati (Domenico Attanasi, Cosimo Lodeserto, Gianvito Lillo, Massimo e Riccardo Manfreda, Marco Masi, Fabio Finizzi, Giuliano Calabrese, Rosanna Saracino, Perla Medico, Vincenzo Farina, Vittoriano Bruno, Rocco Luigi Corvaglia, Angela Maria Rosaria Epifani e Vittorio Piceci) non hanno mancato di sottolineare nelle discussioni in sede di udienza preliminare, evidenziando, peraltro, come la disposizione regionale in materia di ricetta dematerializzata ribadisca che la scelta della farmacia dove recarsi per l’acquisto dei medicinali è libera, in quanto tutte le farmacie hanno accesso alla stessa modalità, senza che possa configurarsi in alcun modo una relazione diretta tra medico prescrittore e farmacista.
Nello stesso solco, la Gup Nestore, nella propria sentenza ha rimarcato che la dazione di una utilità in favore del medico pubblico ufficiale (ovvero il godimento di un immobile in comodato gratuito ovvero ad un canone di locazione insignificante) può costituire al più un indizio del reato di corruzione, ma non può costituire di per sé la prova dell’accordo avente ad oggetto la compravendita dell’esercizio delle funzioni o dei poteri di un funzionario pubblico. Non luogo a procedere, dunque, perché l’accusa non è riuscita a fornire la prova che i medici beneficiati dai farmacisti abbiano messo a disposizione la propria professione per l’interesse di questi in cambio dell’essere dispensati dal pagare i canoni di affitto a prezzo di mercato.
(immagine di repertorio)