Due volte 100: buon compleanno don Settimio, il vescovo più amato

di Alessandro Caiulo

Il più anziano vescovo italiano, l’Arcivescovo Emerito di Brindisi Settimio Todisco, varca la soglia del secolo di vita. Per l’anagrafe è nato il 10 maggio 1924, nella realtà il 5 maggio, dal momento che, come si usava cento anni fa, i bimbi nascevano in casa e ci si recava qualche giorno dopo a dichiararli in Comune per cui, per non incorrere nelle sanzioni di legge previste se il ritardo superava le 48 ore, lo stesso Ufficiale di Stato Civile suggeriva al preoccupato genitore dichiarante di indicare una data successiva.
Mons. Todisco, anzi don Settimio, come amava essere chiamato, anche dopo la nomina episcopale, dai suoi ex ragazzi della F.U.C.I. (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), di cui è stato per lungo tempo Assistente Spirituale, vanta anche un altro record degno di essere evidenziato dal momento che è stato, in linea temporale, il centesimo vescovo a sedere sulla cattedra di San Leucio, il protovescovo di Brindisi, il quale, secondo una antica tradizione, sarebbe stato consacrato da San Pietro in persona.
Qualche nota biografica appare utile per comprendere appieno la sua brindisinità ed il perché, allorquando un giornalista gli chiese perché fosse tanto amato dai suoi concittadini, rispose, col suo proverbiale sorriso: “E’vero, la città mi vuole bene, ed è vero che anche io voglio bene a questa città” e poi aggiunse, allargando le braccia: “Mi sono sforzato di rendere servizio a questa città. Se il Signore mi darà vita, spero di poter offrire ancora qualcosa di più”. Grande affetto ha dimostrato e dimostra anche per la Città Bianca, che ha vissuto i suoi primi anni da sacerdote e dove è andato a vivere, precisamente a Villa Specchia, dopo il suo “pensionamento”.


È nato a Brindisi a cavallo fra le due guerre, e da ragazzo, abitava in via Cittadella, proprio nella zona che nel novembre del 1941 fu pesantemente bombardata dalle forze aeree britanniche; dopo aver frequentato il Seminario Diocesano di Ostuni, completò gli studi nel Pontificio Seminario Regionale di Molfetta ed il 27 luglio 1947 venne ordinato presbitero nella Cattedrale di Ostuni, dall’Arcivescovo Metropolita di Brindisi Francesco De Filippis che lo volle subito Vice Rettore del locale seminario. Tre anni dopo, a seguito del trasferimento del seminario a Brindisi, di cui fu nominato Rettore, tornò nella città natia svolgendo anche il ruolo di insegnante di religione presso l’Istituto magistrale e di assistente spirituale della F.U.C.I.
Nel 1957 l’arcivescovo Margiotta lo rispedisce ad Ostuni con l’incarico di canonico teologo, prefetto di curia, delegato vescovile per l’Azione Cattolica ed assistente del Movimento Laureati.
Nel 1962 gli viene affidato l’ufficio di Vicario Generale e, l’anno successivo, riceve la nomina pontificia di protonotario apostolico. È arciprete del capitolo cattedrale, insegnante di religione nel Liceo classico e membro della Consulta dell’Istituto pastorale pugliese.
Risale al 15 febbraio 1970 la sua ordinazione episcopale, che avviene nella Cattedrale di Ostuni a ministero del Cardinale Ursi e fu – con la nomina formale di Vescovo della sede titolare di Bigastro – Amministratore Apostolico “sede plena” delle diocesi in via di unificazione di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi.
Risale a quasi mezzo secolo fa, al 24 maggio 1975, la sua elevazione ad Arcivescovo Metropolita di Brindisi. L’ingresso formale nella nuova carica avvenne in un bagno di folla il successivo 17 luglio, in una Cattedrale gremita fino all’inverosimile, con la presenza al completo di tutti i sacerdoti delle due diocesi di Brindisi e Ostuni, assiepati nel Coro, e delle autorità civili e militari costrette ad accalcarsi nel Presbiterio perché una folla oceanica aveva letteralmente invaso la chiesa mentre almeno un migliaio di altre persone, non potendo entrare in chiesa nemmeno la capocchia di uno spillo, rimase in piazza Duomo. Essendo alto all’incirca un metro e novanta e con in testa la mitra vescovile, tutti quanti potettero vederlo oltre che sentire la sua voce amplificata dagli altoparlanti. Il saluto a nome del clero glielo rivolse mons.Giacomo Perrino, dopo di che prese la parola, a nome dei fedeli Laici, Luigi De Tommasi, all’epoca Presidente Diocesano dell’Azione Cattolica.


La sua attività pastorale, sempre improntata all’ascolto ed al dialogo, ha dato molti frutti e tanti sono gli attestati di stima e di affetto che ha ricevuto e che continua a ricevere in ogni occasione non solo da parte di chi lo ha conosciuto e frequentato, ma anche di chi, più giovane, ha solo letto gli scritti frutto dei suoi studi e della sua esperienza.
Anche chi si poneva al di fuori della chiesa, su posizioni assolutamente divergenti, ha avuto modo di apprezzare la sua onestà intellettuale e l’apertura al dialogo e, fin da sempre, monsignor Todisco si è mostrato molto sensibile riguardo le questioni ambientali, tanto da apparire, negli anni ottanta, un antesignano dell’insegnamento odierno di Papa Francesco che vede l’uomo come Custode e non padrone del Creato. Ed anche riguardo all’impegno per la tutela dei lavoratori, ben pochi sindacalisti avrebbero potuto avere qualcosa da insegnargli e molti ricordano la sua sincera commozione per la morte, a seguito dell’esplosione dell’impianto P2T, di tre operai del petrolchimico la notte dell’Immacolata del 1977.
Nel marzo del 1980 ricevette, assieme alle autorità politiche locali, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, con cui si trattenne per qualche minuto in colloquio privato.
Notevole è stato il suo impegno per le missioni: dopo aver mandato nel 1980 i missionari della Consolata a Marsabit, in Kenia, si impegnò anche per la costruzione di un ospedale e, nel 1990, vi mandò due sacerdoti diocesani, Don Donato Panna e Don Fernando Paladini, sostituiti, qualche tempo dopo da don Giuseppe Satriano – da lui ordinato dapprima diacono e poi presbitero – attuale Arcivescovo di Bari. Si recò anche personalmente in Kenia in visita pastorale. Tale è stato il suo impegno per le missioni che fu anche nominato membro della commissione della cooperazione missionaria tra le Chiese della Conferenza Episcopale Italiana, della quale fu prima segretario e in seguito addirittura Presidente.
Da buon nocchiero ha sempre saputo condurre al sicuro la nave in tempesta e da buon pastore si è sempre preso amorevolmente cura del suo gregge come nell’estate del 1994, quando a Brindisi in località Uggio spopolavano le finte apparizioni della Vergine Maria al falso veggente Paolo Catanzaro (oggi Sveva Cardinale), egli scrisse una precisa e coraggiosa lettera a tutti i parroci della diocesi con cui non solo lo sconfessava apertamente, ma affermava in maniera chiara che “il fenomeno fa leva sulla credulità popolare ed è fuori di un sano cammino di fede che ha il suo riferimento alla parola di Dio, ai sacramenti, alla guida dei legittimi pastori della Chiesa. Pertanto torno a sconsigliare ed ora diffido i fedeli a non parteciparvi. Quanti dovessero frequentare Uggio non potranno tranquillamente accostarsi ai sacramenti e partecipare alla vita delle comunità ecclesiali”.
Solamente nel 1995, cioè 25 anni dopo l’ordinazione episcopale, e solo per l’insistenza dei suoi collaboratori che gli fecero notare che era l’unico vescovo a non averne uno, scelse lo stemma col motto “Corde et Fide” (col cuore e con la fede), in cui la fede era simboleggiata da una semplice croce ed il cuore era rappresentato dal mare e dalla terra, proprio come la amata gente di Brindisi che è da sempre divisa fra terra e mare.


Una devozione a cui non è mai voluto mancare nel quarto di secolo del suo episcopato brindisino e che lo ha ancor di più fatto amare non solo dai fedeli ma dall’intera popolazione, è stata quella della processione sul Cavallo parato, nel giorno del Corpus Domini. Tutti quanti hanno superato gli “anta” sicuramente ricordano questo omone sulla bianca cavalcatura portare per le strade di Brindisi, circondato dalle autorità e seguito da una folla immensa, l’antico ostensorio settecentesco in argento con l’Ostia Consacrata. Immagino la sua delusione nel constatare che questa tradizione, unica al mondo, dopo sette secoli si sta perdendo.
Ricordiamo che, sotto il suo episcopato, avvenne la definitiva unificazione con la diocesi di Ostuni, che già da tempo dipendeva da quella di Brindisi; rivestì tale carica fino al 5 febbraio 2000 quando, per raggiunti limiti di età, divenne Arcivescovo Emerito di Brindisi.
Proprio quel primo sabato di febbraio di 24 anni fa, con un sorriso aperto, ma probabilmente col magone nel cuore, così annunciò alla sua gente l’arrivo di un nuovo inquilino al Palazzo Arcivescovile: “Mentre le campane suonano a distesa il mezzogiorno, io comunico ai sacerdoti e ai fedeli convenuti in Cattedrale la lieta notizia della nomina di S.E. Mons.Rocco Talucci ad arcivescovo di Brindisi-Ostuni. Continua così la serie degli Arcivescovi di Brindisi-Ostuni, nella continuità della gerarchia apostolica e nella stabilità e crescita di una Chiesa antica e nobile che ha le sue radici in S.Leucio e in S.Oronzo. Per questo l’evento che si compie quest’oggi esce subito dalla cronaca, in ordine cioè alla pura successione nell’ufficio, ed entra già nella storia della nostra gente e del territorio e si apre alla parola del Signore: Io sono il buon pastore (Gv 10,11) e vi darò pastori secondo il mio cuore (Ger 3,15)”. L’effettivo passaggio di consegne avvenne l’8 aprile successivo, quando Talucci fece l’ingresso in Cattedrale e Todisco si ritirò a Villa Specchia presso le suore benedettine ad Ostuni.
Nel 2002 fu pubblicato un suo libricino dal titolo “Da un altare scomodo”, dalle parole dell’ultimo messaggio pasquale di don Tonino Bello – il quale fu un suo successore alla guida della Diocesi di Molfetta e a cui era legato da una sincera amicizia, coltivata anche in seno alla Conferenza Episcopale Pugliese – prima di morire nel 1993 per un male incurabile: “Vi benedico da un altare scomodo, ma carico di gioia. Vi benedico da un altare coperto da penombre, ma carico di luce. Vi benedico da un altare di silenzi, ma risonante di voce. Sono le grazie, le luci, le voci dei mondi, dei cieli e delle terre nuove che, con la Risurrezione, irrompono nel nostro mondo vecchio e lo chiamano a tornare giovane”.
Ricordi personali di “don Settimio” ne avrei tantissimi dal momento che è stato lui, amico di lunga data sia dei miei genitori che dei miei suoceri a celebrare il mio matrimonio, ma preferisco prendere in prestito quanto di lui diceva, scriveva e pensava il mio compianto suocero, Marcello Mele, suo ragazzo alla FUCI negli anni Cinquanta rimasto legato da una fraterna amicizia che lo ha portato a continuare a frequentarlo per sessanta e più anni.


Ricordava la cura con cui, come assistente spirituale della FUCI, si impegnava per la formazione cristiana di quella che diceva sarebbe stata la futura classe dirigente, perché assolvesse onestamente e con spirito missionario tanto agli impegni privati, quanto a quelli pubblici e di quella dei futuri professionisti, affinchè portassero come loro specifico distintivo l’impegno di diffondere, con il loro comportamento, in tutti gli ambienti della società, una profonda presa di coscienza del valore santificante del lavoro. Quando fu Pastore della Diocesi moltiplicò ulteriormente il suo impegno da un lato per sollecitare, in ogni occasione, le componenti che si richiamavano alla dottrina cristiana a fare in modo che non vi fossero punti della società nei quali Cristo non fosse conosciuto e, dall’altro, a richiamare l’opinione pubblica perché le istituzioni e le strutture umane, in cui tutti si trovano a vivere ed operare, si adeguino ai principi che reggono una convivenza mirata a garantire una qualità della vita a misura della umana dignità. Il tutto nello spirito di “Evangelizzazione e Promozione Umana” tanto caro a Paolo VI. Lo spirito apostolico, l’ansia di trattare con Dio, la generosa dedizione anche personale al servizio degli altri con le parole e con le opere hanno segnato indelebilmente i venticinque anni del suo episcopato.
Proverbiale è il suo rammarico per non aver mai fatto il parroco, ascrivendo a questo il suo aspetto austero e apparentemente distaccato, tale da poter dare impressione di essere lontano dai bisogni e dai problemi della gente comune, riconoscendo, in questo, un suo limite.
In conclusione, tranne la parentesi molfettese, dei 77 anni di attività pastorale fino ad ora svolta da don Settimio, da che è stato ordinato presbitero nel lontano 1947, ben 72, di cui 49 da arcivescovo, sono stati a beneficio della nostra diocesi. Questo non può che far riecheggiare ancora più forti le sue parole “E’vero, la città mi vuole bene, ed è vero che anche io voglio bene a questa città”, mentre l’umiltà, che ancora lo pervade, nonostante le sue grandi conoscenze, sta in questa sua altra frase: “Ho cercato di essere un buon prete, coltivando lo studio, la cultura, le virtù, la vocazione. Cose indispensabili per crescere e per maturare la propria personalità”.