Eroi senza conferenze stampa: il lavoro invisibile della Polizia Penitenziaria


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L’editoriale di Gianmarco Di Napoli per il numero 412 de Il7 Magazine
La notizia di oggi è che in Puglia nessun agente di Polizia Penitenziaria è stato aggredito, insultato o minacciato da detenuti. L’altra notizia è che oggi non sono stati intercettati droni inviati per scaricare in un carcere telefoni cellulari e sostanze stupefacenti. Attendiamo ormai quotidianamente una nota dei sindacati, gli unici abilitati a raccontare le condizioni in cui operano i poliziotti addetti al controllo dei detenuti, anche loro reclusi in un silenzio obbligatorio che li priva persino della legittima soddisfazione di aver svolto bene il loro lavoro.
Avete mai assistito a una conferenza stampa in cui viene dato atto alla Polizia Penitenziaria di aver sventato un’evasione, sequestrato un telefonino o un computer, o addirittura abbattuto un drone che aveva violato il perimetro del carcere? Non è consentito. Tra tutte le nostre forze di polizia, gli agenti penitenziari sono gli unici che devono affidarsi ai sindacati non solo per le mere questioni lavorative, ma anche per far “evadere” notizie sulla loro attività professionale.
Con il risultato che gravissimi episodi di violenza quasi quotidiana e importanti operazioni di polizia (qualche mese fa venne letteralmente abbattuto un drone che stava sorvolando il carcere di Foggia) vengono in qualche modo uniformati e appiattiti da una comunicazione sindacale che fa legittimamente il proprio mestiere, ma nei limiti del proprio specifico compito.
Così, all’esterno, non c’è quasi mai la percezione precisa del ruolo svolto dagli agenti in carcere, né la consapevolezza che il corpo della polizia penitenziaria, negli ultimi anni, è divenuto la più importante e determinante tra tutte le forze di polizia.
Ricordate i secondini visti in tanti “prison movie” del passato?
Erano quelli che si occupavano di evitare le evasioni dei detenuti di controllare che non si ammazzassero nell’ora d’aria, di limitare lo spaccio di droga, di sorvegliare che i parenti in visita non introducessero oggetti proibiti. Era fondamentalmente un lavoro svolto guardando all’interno del carcere.
Negli ultimi anni i compiti e le responsabilità sono profondamente mutati: i rischi arrivano in egual misura anche dall’esterno, perché se prima poteva accadere che nelle carceri (soprattutto quelle nel cuore della città, come a Brindisi) venissero lanciati pacchi dall’altra parte del muro di cinta, ora ci sono piloti professionisti pagati profumatamente dalla criminalità organizzata per guidare droni sempre più sofisticati, per consegne personalizzate ai detenuti. E la polizia penitenziaria è costretta a mettere in piedi una vera e propria sorveglianza contraerea per fronteggiare questi rischi, con la facoltà di fare fuoco per abbattere i “velivoli” nemici. L’altro problema è quello dei telefonini, sempre più piccoli e performanti, che spesso riescono a superare i controlli e con i quali i boss non mantengono solo i rapporti con le famiglie, ma riescono a impartire ordini ai loro sodali all’esterno del carcere.
Ci sono poi cambiamenti legati alla mission dell’agente penitenziario: l’obiettivo non è solo contenere, ma favorire il reinserimento sociale del detenuto. E poi ci sono una serie di ulteriori emergenze contingenti: la presenza crescente di detenuti stranieri, che richiede competenze interculturali e linguistiche; la carenza di strutture alternative, con molti soggetti affetti da disturbi mentali che si trovano in carcere; e, naturalmente, il sovraffollamento, inversamente proporzionale al numero degli agenti impiegati.
Siamo abituati a dare atto al lavoro svolto da tutte le altre forze di polizia quando effettuano importati operazioni contro la criminalità, spesso andando a colpire le più pericolose cosche mafiose, arrestando killer, pedofili o truffatori di anziani. Dimentichiamo però che, dopo quegli arresti, le sirene spiegate e i complimenti istituzionali di rito, le persone in manette diventano detenuti, e restano tali per anni, a volte per decenni, in taluni casi per sempre. E che il cerino resta nelle mani dei poliziotti penitenziari, che dovranno garantire, da un lato, che quelle persone scontino come previsto la loro pena e, dall’altro, che possano farlo in maniera dignitosa, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Tutelandosi dalle pressioni mafiose che, immaginiamo, siano sempre molto forti. Ogni tanto bisognerebbe ricordarsene, rimarcando l’importanza oscura del loro lavoro e sostenendo la necessità di un adeguamento indispensabile di personale e mezzi. Perché per vincere la battaglia contro la criminalità fuori dal carcere è sempre più fondamentale averne il totale controllo all’interno.