
di Sonia Di Noi
Quella mattina del 5 febbraio dell’anno 2000, al principio del nuovo millennio, la cattedrale di Brindisi era affollata di gente. L’annuncio era importante. Monsignor Settimio Todisco – sua Eccellenza – giunse al microfono un po’ trafelato, pallido in viso, con indosso solo il suo abito talare, alcun paramento sacro, per comunicare agli astanti la fine del suo mandato episcopale e la nomina del suo successore. Dopo 25 anni, per raggiunti limiti di età, l’amatissimo arcivescovo brindisino non era più alla guida della diocesi di Brindisi e Ostuni e si preparava alla nuova stagione di una vita intera trascorsa al servizio di Dio.
“Ti ringrazio per questi 25 anni a Brindisi e ti invoco una benedizione per chi viene dopo di me. Arrivederci!” Queste furono le parole proferite da monsignor Settimio Todisco nella sosta dinanzi al Santissimo Sacramento, pochi momenti prima di lasciare per sempre le stanze che lo avevano ospitato per tanti anni, trascorsi a capo dell’arcidiocesi che lo vide insediarsi il 24 maggio del 1975 – succedendo a monsignor Nicola Margiotta -, quando era già vescovo della cattedrale di Ostuni dal 1970. Sotto il suo episcopato, infatti, avvenne l’unificazione della diocesi di Ostuni e dell’arcidiocesi metropolitana di Brindisi.
Aveva 75 anni, monsignor Todisco, quando annunciava la fine di un’epoca, di un mondo che fino a poco prima sembrava immutabile. Ora ne ha ben 98, compiuti pochi giorni fa, il 10 maggio scorso, e saperlo presente ma altrove dà la dimensione di un passato che ci mette la mano sulla spalla, e la calda certezza di saperlo nella quiete della stanza accanto. La fine del suo episcopato fu un po’ come la dipartita di Giovanni Paolo II, di pochi anni più tardi: quella vertigine del vuoto, quando la vita resta uguale per tanto tempo e non ricordi più cosa sia il cambiamento, e invece poi ti accorgi che non c’è distanza più grande di quella dal giorno prima. Con la nomina di arcivescovo emerito della diocesi, in quel febbraio di 22 anni fa, Todisco scelse di trasferirsi nell’atmosfera di pace e raccoglimento del monastero delle suore oblate Benedettine di Santa Scolastica, dove risiede tutt’ora, a Villa Specchia, vicino Ostuni. Pur nella nuova condizione di vita, restò immutato il fervore apostolico di “vescovo del mondo”, come si definì in una occasione, ma con la gioia di riscoprire il tempo invece che naufragarci dentro, continuando sì ad offrire la sua disponibilità al ministero sacerdotale, ma potendosi dedicare con maggiore impegno alla preghiera e allo studio, sua grande passione. “Non mi sono mai ritenuto padrone dell’episcopio, dei sacerdoti, della gente, avevo un ruolo di autorità in funzione di un servizio reso”
Nato a Brindisi nel 1924, dopo aver compiuto gli studi nel seminario diocesano di Ostuni ed in quello regionale di Molfetta, fu ordinato sacerdote il 27 luglio del 1947, a soli 23 anni, iniziando il ministero in qualità di docente e di vice rettore nel seminario di Ostuni, oltre ad insegnare religione nelle classi del Ginnasio e collaboratore parrocchiale della cattedrale della Citta Bianca. Settimio Todisco faceva parte di quella generazione di seminaristi prima e parroci poi che hanno occupato per decenni le sagrestie delle chiese particolari della nostra città, e che anche i quarantenni di oggi ricordano. Pare quasi di vederli passeggiare per il cortile del seminario, lui, con Mario Guadalupi, Vincenzo Piccoli, Angelo Catarozzolo (che fu poi suo vicario diocesano), Beniamino Elefante, Giuseppe Massaro, Ferruccio Biasi, Damiano Dadorante, Lino Lavilla e altri ancora: tutti “don”, tutti “monsignore”. E poi le foto di rito, in bianco e nero, quelle di gruppo sulle panche disposte all’aperto, prima come allievi e poi come insegnanti e rettori. Ma don Settimio, a differenza degli altri, non è stato mai responsabile di una parrocchia, come raccontò: “Ritengo che l’essere parroco sia l’esperienza più pregnante per un sacerdote, perché condivide la quotidianità con i fedeli, ma sono stato in ogni caso “padre” nelle esperienze come insegnante, confessore e vicario generale. Anche se da vescovo ho sofferto la mancanza di esperienza quotidiana con le persone” E’ stato sempre, infatti, un presbitero votato alle responsabilità amministrative e agli impegni istituzionali, con incarichi in seno alla Consulta dell’Istituto pastorale pugliese e in Azione Cattolica, oltre che rettore del seminario nella rinnovata sede di Brindisi, dal 1950.
La vita sacerdotale nella sua interezza e poi, soprattutto, l’episcopato di monsignor Todisco si svolsero e si nutrirono in una congiuntura storica fondamentale, con il Concilio Vaticano II a tracciare il ruolo e il futuro della Chiesa Cattolica nel mondo moderno. Senza muovere di un millimetro dai fondamentali del Credo cattolico – “l’unico Vangelo, Cristo lo ha dato a Pietro e agli apostoli” -, per lui la connotazione carismatica non poteva e non doveva slegarsi dalla dimensione missionaria della Chiesa in ogni ambito in cui si svolge la vicenda umana, con l’impegno di tutti i battezzati ad animare di valori e di tensioni spirituali il tempo che sono chiamati a vivere in questo mondo. I 25 anni servizio episcopale del vescovo emerito ebbero l’obbiettivo di formare i cosiddetti “cristiani adulti nella fede”, attraverso l’impegno sociale e civile quotidiano. Era l’estate del 2000, e a tal proposito già rifletteva: “Si è fatto molto nell’ambito dei sacerdoti, delle parrocchie, ma sono più scettico sul piano civile. I doveri di un buon cristiano sono quelli del buon cittadino che si interessa alla cosa pubblica. Lo sviluppo passa attraverso la cultura, quella Alta, ma anche quella della gente comune, questo è importante perché senza cultura non si può educare alcuno, non si converte alla Chiesa e alla vita della città: non solo messe e tradizioni popolari, quindi, ma anche catechesi, affinché la fede sia convinzione”
Tutta l’opera di Settimio Todisco appartiene pienamente, nei sentimenti e nei valori espressi, a un carisma e a un mondo che forse oggi appare così diverso e lontanissimo dal nostro, e, come tale ne interpreta lo spirito e ne costituisce una memoria. Come quando insisteva per un “cenacolo culturale” per ricerca di un punto d’incontro tra i fedeli: “Tra i tanti progetti rivolti ai laici c’era, appunto, quello di inventare un modulo di socialità, di studio, di confronto sul piano civile e sociale. Promuovendo un atteggiamento meno attendista nei confronti delle istituzioni, in favore di un risveglio spontaneo delle coscienze per essere costruttivamente critici. Una considerazione che nasce dalla mia propria constatazione di un appiattimento, di un rifuggire la responsabilità alla partecipazione” “E poi adesso sono più in Alto – riferiva – in un osservatorio che mi fa sentire maggiormente vescovo del mondo intero in comunione sacramentale con il vescovo di Roma. Ecco perché ho sempre insistito nel rapporto con altri popoli e religioni, con una missione “ad Gentes” per l’annuncio del Vangelo”
Don Settimio esprimeva un magnetismo, un rispetto veramente sentito, sia per il ruolo che ricopriva che per l’uomo autorevole nel tratto e nella voce, che vibrava fortemente nell’aria durante le omelie per le solennità del Corpus Domini e dei Santi Patroni, ma anche per il portamento maestoso quando recava il Santissimo Sacramento dalla sommità del cavallo parato, durante la processione di giugno. Tanto che si ricorda un aneddoto, un commento in una di quelle occasioni: al suo passaggio, una fedele ebbe a esclamare: “Cce monsignori ca tinimu!” Che è un po’ come il Manzoni ne I promessi sposi, che fa esprimere complimenti all’indirizzo della monaca di Monza, con un’ammirazione che chi la osserva deve frenare con un “che madre badessa!” Tuttavia, l’arcivescovo Todisco era anche quel capo della diocesi che rispondeva direttamente al telefono in episcopio, quando una piccola e inesperta cronista telefonava a tutte le ore per farsi rilasciare un’intervista; con pazienza e paterna condiscendenza.
Da vescovo emerito, ha continuato a seguire i problemi della Chiesa Cattolica, la cultura e la politica (non quella dei partiti, n.d.r.) in Italia e nel mondo, pregando per la sofferenza e l’emarginazione che lo attanagliano. Ma anche a incidere sulla mentalità della gente che ha continuato ad amarlo e a visitarlo nella sua residenza a Villa Specchia. Nel congedarsi, augurava alla diocesi “di correre più svelta sui passi della Storia, rispondendo al disegno di Dio, e un impegno maggiore per la Chiesa e per la città” Un monito che non ha perso un grammo della sua attualità.