
Una organizzazione criminale di tipo mafioso tenacemente aggrappata al territorio della provincia sul quale, in virtù della connivenza con le frange più condiscendenti della politica locale, anno dopo anno ha consolidato il potere, insinuandosi in maniera sempre più penetrante nei settori produttivi maggiormente redditizi, anche attraverso il reclutamento di nuovi elementi di giovane età (qualche volta persino incensurati) che facilmente subiscono la fascinazione perversa dei vecchi boss.
Un’infiltrazione silenziosa, eppure continua e progressiva, che non sposta gli equilibri interni ed esterni tra i clan egemoni, sostanzialmente rimasti invariati, ma tende a confermare l’autorevolezza dei capi storici i quali, nonostante siano tutti da tempo detenuti al 41 bis, riescono a comunicare con l’esterno, imponendo le proprie strategie (soprattutto nei tradizionali rami del narcotraffico, delle rapine e delle estorsioni) e controllando ciò che accade nella propria zona di riferimento.
L’istantanea consegnataci dalla relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e i risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia nel semestre luglio – dicembre 2019 fotografa impietosamente la situazione del crimine nella provincia di Brindisi facendo emergere una Sacra Corona Unita che, lontana dal perdere terreno, appare chiaramente irrobustita, forse anche per effetto della scelta di evitare i clamori dei decenni ’80 e ’90 per affidarsi, invece, ad un agire più quieto: una linea di condotta criminale meno eclatante che, non destando particolare allarme sociale, consente in una certa maniera di mantenere bassa la soglia dell’attenzione nella gente.
L’assetto delle zone di influenza dei clan risente della storica suddivisione successiva alla scissione e ricalca equilibri noti che evidentemente, al momento, nessuno ha interesse a ridiscutere. A Brindisi la fanno da padrone i clan Morleo (attivo in special modo nel narcotraffico) e Brandi (per quanto quest’ultimo gruppo sia stato sfiancato dalle condanne divenute irrevocabili nel 2019). Riguardo alla provincia, continua la storica egemonia dei Buccarella nella zona di Tuturano e dei Bruno a Torre Santa Susanna, il resto del territorio è invece dominato dai due clan mesagnesi tra loro rivali: da una parte, lo schieramento riconducibile al fondatore Pino Rogoli, affiancato dal boss Francesco Campana; dall’altra, il gruppo capeggiato dal “triumvirato” composto da Massimo Pasimeni, Antonio Vitale e Daniele Vicientino.
Accanto alle storiche figure appena citate (ancora ammantate di un’aura di leggenda e perciò pericolosamente capaci di esercitare un certo potere di seduzione sulle nuove leve), ciò che preoccupa maggiormente gli investigatori è il progressivo affermarsi di una “seconda generazione” criminale, definita nella relazione come “scalpitante e violenta”: il timore è che questi gruppi di giovani dall’arma facile, responsabili di reati che vanno dallo spaccio di sostanze stupefacenti alle rapine, dai furti ai reati contro la persona, alcuni dei quali sfociati in gravi episodi di sangue, possano diventare terreno di caccia della criminalità organizzata. Tra le criticità di tutte le macro-aree criminali pugliesi, infatti, perciò anche del territorio brindisino, vi è il fenomeno della delinquenza giovanile. Numerosi sono i casi di cooptazione di giovani (spesso purtroppo minori) per potenziare gli organici dei clan, con modalità che includono persino l’iniziazione in tenerissima età “di quei soggetti il cui legame con la criminalità organizzata nasce direttamente nei contesti familiari”.
Secondo quanto evidenziato dalla relazione, il traffico di sostanze stupefacenti è ancora la più affidabile fonte di profitto, nonché il principale metodo di approvvigionamento di denaro per il sostentamento delle famiglie dei detenuti (che vengono ancora sostenute anche con i proventi delle rapine e delle estorsioni).
A proposito di narcotraffico, giova evidenziare i riscontri emersi nel corso degli ultimi filoni di indagini, che hanno portato alla luce diversi sodalizi con altre associazioni di tipo mafioso: ad esempio, il report della DIA fa esplicito cenno ad un’operazione condotta nel dicembre 2019 dalla Guardia di Finanza di Bari, nella quale “partner d’affari” del clan Strisciuglio, che domina la malavita del capoluogo di regione, era un pluripregiudicato ostunese figlio di un vecchio boss del contrabbando. Altra alleanza è stata scoperta durante l’operazione “Uragano” del 2015 (processo conclusosi nel 2018, con sentenza divenuta definitiva il 30 ottobre 2019). In questo caso, gli accordi coinvolgevano tre diverse organizzazioni criminali le quali, interagendo fra loro, gestivano buona parte del mercato della droga nel territorio salentino, riuscendo ad estendere le proprie attività anche in Emilia Romagna e in Friuli Venezia Giulia: una delle tre aveva base operativa e logistica a San Pietro Vernotico e faceva capo ad un pregiudicato affiliato al boss mesagnese Campana.
Sarà il tempo a dirci se quelli appena citati debbano considerarsi episodi isolati o se possano inquadrarsi in un più ampio e nuovo disegno di “collaborazione” tra SCU ed altri consorzi criminali. Quel che è certo è che, se da un lato il traffico di stupefacenti rappresenta la causa principale dei contrasti interni, dall’altro è il settore in cui, per massimizzare i profitti, si raggiungono le intese più durature ed economicamente più vantaggiose, con le altre mafie italiane così come con le organizzazioni straniere. Non può, infatti, trascurarsi il rapporto, più che mai vitale e sempre proficuo, con gruppi criminali albanesi operanti nel paese di origine o dimoranti nella provincia di Brindisi. Le risultanze investigative delle ultime operazioni di contrasto (viene citata soprattutto l’operazione “Outlet” del luglio 2019) hanno rivelato un impressionante traffico di marijuana e cocaina dall’Albania che, pur avendo come epicentro Bologna, si avvaleva, per l’utilizzo del porto di Brindisi, della necessaria collaborazione di pregiudicati della provincia sia per l’approvvigionamento delle sostanze stupefacenti che per lo smistamento delle partite di volta in volta importate o acquistate.
In quest’ottica, anche nel semestre esaminato nella relazione, il porto di Brindisi continua a rappresentare un imprescindibile avamposto per l’approdo e la distribuzione non soltanto della droga ma anche delle merci contraffatte, dei tabacchi lavorati esteri e dei rifiuti illeciti (è appena del dicembre 2019 il sequestro di i rifiuti speciali contenuti in un rimorchio in partenza da Brindisi verso la costa greca).
Per quanto di non immediato raggiungimento da parte delle imbarcazioni provenienti da Africa e Medio Oriente, la costa brindisina è stata lambita anche dal fenomeno dell’immigrazione clandestina. Generalmente le organizzazioni criminali transnazionali che si occupano di tratta degli esseri umani sono molto autonome dalle mafie locali, ma negli ultimi tempi sono emersi indiscussi coinvolgimenti di alcuni ex contrabbandieri brindisini che hanno messo la propria eccezionale conoscenza del territorio al servizio del traffico internazionale di persone.
Non accenna a diminuire sul territorio provinciale la pressione estorsiva in danno di commercianti e imprenditori (anche titolari di strutture turistiche e ricettive, di stabilimenti balneari e di locali notturni), a cui si è aggiunta una ulteriore “fetta di mercato” criminale: quella delle aste giudiziarie manovrate da soggetti vicini alle associazioni mafiose che, in qualche caso, potevano contare addirittura su una sorta di capitale sociale e su una vera e propria agenzia immobiliare da utilizzare per la partecipazione alle vendite.
Altro profilo di scottante interesse riguarda le varie forme di infiltrazione nell’economia legale e nella pubblica amministrazione. Anche nella provincia di Brindisi, così come in territorio barese e soprattutto leccese, quella che viene comunemente definita “mafia degli affari” ha lavorato e lavora per incunearsi nel tessuto connettivo socio-economico dei comuni, mirando a rafforzare nel medio e lungo periodo le proprie posizioni nei settori cruciali dell’economia e a costruire ponti tra mafiosi, imprenditori, liberi professionisti e rappresentanti infedeli della pubblica amministrazione e delle istituzioni.
Estremamente esposto si è rivelato il comparto agro-alimentare, sia ai fini del riciclaggio dei proventi di attività illecite, sia perché costituisce una appetibile fonte di accaparramento di erogazioni pubbliche (regionali, nazionali ed europee).
Menzione a parte, nella relazione della Dia, meritano le frodi e le sofisticazioni alimentari che, attraverso pratiche commerciali illegali, alterano i normali equilibri concorrenziali sui mercati nazionali e internazionali, creando un mercato illegittimo di falsi prodotti “made in Puglia”. Il riferimento esplicito è alla operazione “Ghost Wine”, eseguita dal Nucleo Antisofisticazioni dei Carabinieri di Lecce e dall’Unità investigativa dell’Ispettorato centrale repressioni frodi del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali le cui indagini, iniziate nel secondo semestre del 2019, si sono concluse nel giugno di quest’anno. Il sistema criminale, basato su uno “schermo di società compiacenti appositamente costituite” permetteva di ottenere vino a basso costo, successivamente commercializzato come prodotto di qualità o addirittura biologico, DOC o IGT.
L’ultimo punto analizzato riguarda le organizzazioni mafiose straniere operanti sul territorio: la relazione semestrale segnala in primis un significativo incremento di grossi “bazar” nei pressi o all’interno dei maggiori centri commerciali della provincia, gestiti prevalentemente da cittadini cinesi, nonché una forte presenza di criminalità organizzata nigeriana che al tradizionale interesse per lo sfruttamento della prostituzione affianca una nascente attenzione per il traffico di stupefacenti.
In sintesi, il quadro che emerge racconta di una Sacra Corona Unita che, per quanto silente, è in piena salute, di vecchi boss che non mollano la presa e continuano ad avvalersi dei tradizionali metodi di controllo delle zone di influenza (pizzini consegnati a familiari e a detenuti in permesso premio o sottoposti a misure alternative alla detenzione; telefoni cellulari illecitamente introdotti negli istituti di pena, forte presenza delle donne, a vigilare che non venga compromesso o limitato l’ascendente dei clan di appartenenza), di nuove leve particolarmente aggressive iniziate al crimine non ancora maggiorenni e di una progressiva penetrazione nelle attività imprenditoriali e commerciali della provincia che non promette niente di buono per il futuro del nostro territorio.