Marcella Di Levrano raccontata dal pm e dal carabiniere che vissero il suo dramma


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Di Marina Poci per il numero 409 de Il7 Magazine
Quando il 5 aprile del 1990 Sergio Palma, carabiniere del Nucleo Operativo del Comando Provinciale, fu chiamato a intervenire in un terreno a ridosso del bosco dei Lucci, tra Brindisi e Mesagne, perché era stato ritrovato il cadavere di una giovane donna, del volto della Marcella Di Levrano che aveva conosciuto nelle vicinanze della stazione di Brindisi era rimasto molto poco: il viso bellissimo di quella 26enne mesagnese, che da qualche anno – informalmente – collaborava con la Squadra Mobile della Questura di Lecce, era sfigurato, tumefatto, reso irriconoscibile dalla violenza bruta di chi, servendosi di pietre probabilmente trovate sul posto, aveva voluto cancellare l’identità di quella giovane, colpevole di fornire informazioni agli sbirri su spaccio di sostanze stupefacenti, delle quali era stata assidua consumatrice, e Sacra Corona Unita, di cui, per via del legame con un esponente di spicco, conosceva personaggi e meccanismi.
L’inizio di quella collaborazione è stato ricordato martedì 24 giugno presso la Chiesa Madre di Mesagne con una celebrazione eucaristica che, per iniziativa della famiglia e del coordinamento provinciale dell’associazione antimafia Libera, si è tenuta a distanza di 38 anni esatti dal giorno in cui la giovane entrò per la prima volta negli uffici della Questura di Lecce per raccontare quanto sapeva: le dichiarazioni di Di Levrano – per espressa ammissione del sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce Alberto Santacatterina – si sono rivelate preziose – quando non decisive – per la ricostruzione dell’organigramma della SCU, non soltanto mesagnese, di quegli anni, di alcuni omicidi eccellenti e dei traffici di droga di cui l’organizzazione era regista sul territorio.
Aveva una bimba di pochi anni, Marcella, poi cresciuta da sua madre, Marisa Fiorani, e adottata da una delle sue sorelle, e il desiderio di rendersi “pulita” agli occhi della piccola Sara ebbe un peso specifico importante nella scelta di oltrepassare quella soglia e infrangere il diaframma tra la vita che aveva condotto sino a quel momento, segnata dalla dipendenza e dalle frequentazioni pericolose, e quella, libera, rispettabile e virtuosa che immaginava di poter regalare alla sua bambina.
Una scelta che, a distanza di tre anni e mezzo, nell’imminenza dell’avvio del primo maxiprocesso alla quarta mafia, le sarebbe costata la vita senza nemmeno la consolazione, per la famiglia, che lo Stato abbia consegnato alla giustizia i mandanti e gli esecutori materiali di quella morte per lapidazione. Avvenuta, quasi certamente, il giorno stesso della scomparsa, l’8 marzo del 1990, quando Marcella non rientrò a casa, facendo temere il peggio.
“Si può affermare con certezza”, scrisse il PM antimafia Santacatterina nella richiesta di archiviazione della seconda indagine per omicidio, “sia per quanto dichiarato da numerosi collaboratori di giustizia, sia per quanto emerso nel corso dei due maxiprocessi leccesi, come la causa della morte di Marcella Di Levrano sia da individuarsi senza ombra di dubbio nella collaborazione da lei prestata sin dal lontano 1987 con la Squadra Mobile della Questura di Lecce”: una collaborazione che il magistrato definì “ ancora più meritoria per essere stata totalmente disinteressata, nonché per essere avvenuta in un periodo nel quale nessun beneficio era previsto o anche lontanamente ipotizzabile” ed “encomiabile”, per la decisione di allontanarsi da quegli ambienti criminali mafiosi a cui era contigua, “rompendo la logica di omertà e di intimidazione che li caratterizzava”.
Quello che il maresciallo Palma ha della giovane mesagnese è un ricordo lucido e puntuale, malgrado i trentacinque anni trascorsi da quel giorno in cui, mentre era impegnato in un servizio di pattugliamento insieme ad un collega, ricevette via radio la chiamata che ne segnalava il corpo, parzialmente celato da arbusti, foglie secche e cespugli di mirtilli selvatici: una vegetazione rigogliosa che forse, nelle intenzioni degli assassini, doveva servire a ritardarne quanto più possibile la scoperta. Così come lucido e puntuale è il ricordo che di Marcella ha il magistrato antimafia Francesco Mandoi, sostituto procuratore della Repubblica a Brindisi e presso le Direzioni Distrettuali Antimafia di Lecce e Potenza, nonché sostituto procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, nella quale è stato anche Aggiunto, e – esperienza di cui va molto fiero – capo delle Segreteria del Sottosegretario alla Giustizia, l’onorevole Giuseppe Ayala. Mandoi, autore del saggio autobiografico “Né eroe né guerriero. Ricordi e sfide di un magistrato”, a Marcella Di Levrano dedica alcune pagine del suo libro, nelle quali conferma quanto il procuratore Santacatterina non ha esitato a mettere nero su bianco nel 2019 nella propria richiesta di archiviazione del procedimento penale relativo all’omicidio della ragazza: “Il dottor Romolo Napoletano, l’allora dirigente della Squadra Mobile di Lecce, mi parlava spesso delle notizie che riceveva da questa giovane mesagnese. Le riteneva una fonte inesauribile di episodi, nomi e circostanze sulla SCU e sui traffici di droga che gestiva. Era chiaro che fossero notizie di prima mano, apprese da esponenti interni all’associazione e, quindi, acquisire formalmente la sua testimonianza ci sarebbe stato molto utile per il processo che stavamo istruendo. All’epoca io e Napoletano ne avevamo parlato, cercando di escogitare la soluzione migliore per proteggere lei e la sua bambina, che amava moltissimo. Purtroppo a quel tempo non esisteva una disciplina organica sui collaboratori e testimoni di giustizia. Ma, oltre a questa difficoltà, c’era il rifiuto di Marcella a farci verbalizzare le sue dichiarazioni. Temeva ritorsioni, per cui pretese di essere ascoltata informalmente. Durante le fasi preparatorie di quello che sarebbe stato il primo maxi processo alla SCU, ci avvalemmo continuamente delle informazioni fornite dalla Di Levrano, che si rivelò fondamentale. Perciò volevamo essere sicuri di “usarla” al momento giusto e con la garanzia della massima efficacia nel processo. Purtroppo non ci siamo riusciti, la Sacra Corona Unita è arrivata prima che riuscissimo a sondare ogni possibilità concessa dalla legislazione vigente per assicurare l’incolumità di Marcella e della sua bambina”, ricorda Mandoi, che – proprio come scrive nel suo libro – non ama le definizioni di eroe, né di guerriero, ma insiste per essere chiamato semplicemente “magistrato e uomo dello Stato, che ha fatto il suo dovere dall’inizio alla fine”.
Eppure, nell’adempimento di quel dovere, perseguito con la forza dello Stato impressa sulla toga quotidianamente calata sulle spalle, la vicenda di Marcella Di Levrano costituisce per Mandoi un “immenso rammarico” e “un trauma terribile”: “Di Marcella non avevo soltanto sentito parlare dal dottor Napoletano. Prima ancora, quando ero un giovane magistrato in forza alla Procura di Brindisi, l’avevo incontrata e l’avevo interrogata, perché era stata denunciata a piede libero. Quelli erano gli anni difficilissimi del passaggio dal contrabbando al traffico di droga: la SCU stava cambiando e la provincia Brindisi era la più attiva su quel fronte. La diffusione delle piazze di spaccio era diventata incontrollabile. Lessi il suo nome per la prima volta in una informativa dei Carabinieri, che l’avevano fermata scoprendole addosso alcune dosi di eroina e, per questo, la ritenevano una spacciatrice. Ma mi fu immediatamente chiaro, non appena ebbi occasione di parlarle, che non era affatto così. Dal colloquio con Marcella uscii con una duplice convinzione. Primo: era una tossicodipendente, non organica all’associazione, che occasionalmente spacciava per procurarsi la dose quotidiana di droga. Secondo: era una brava ragazza, fortemente motivata a uscire dal giro in cui le frequentazioni giovanili l’avevano condotta. Più tardi, quando arrivai a Lecce, capì che sul serio aveva il desiderio di allontanarsi dalle persone che le stavano accanto. Purtroppo non fece in tempo”, chiosa il magistrato.
Che Marcella non fosse una spacciatrice lo aveva capito anche il maresciallo Palma, che – con toni meno diplomatici e una schiettezza che rende onore al suo impegno sul territorio in tanti anni di servizio nell’Arma, si allinea al rammarico di Mandoi sulla mancata formalizzazione della collaborazione di Di Levrano, manifestando, in aggiunta, il disappunto per la mancata condanna di mandanti ed esecutori dell’omicidio.
“All’epoca ero in servizio al Comando Provinciale, vicino alla stazione. Marcella la conoscevamo bene anche a Brindisi. Amava sua figlia sopra ogni cosa, ne parlava spesso. La decisione di collaborare venne proprio dalla volontà di dare a Sara una madre di cui non vergognarsi”, ricorda Palma, che ancora adesso pensa a Marcella “con dispiacere e con tenerezza”. “Ogni tanto ci dava l’input per indagare su nuovi spacciatori o su quello che accadeva nelle piazze di spaccio, ma sempre con molta cautela. Aveva il timore di essere vista con noi e di essere giudicata un’infame. Il suo legame con uno dei più feroci esponenti del clan capeggiato da Gianni De Tommasi l’aveva messa a conoscenza di informazioni preziose, la cui importanza è nelle sentenze”. Sergio Palma, che di “collaboratori, informatori e delatori” ha una vasta esperienza, non ha dubbi: “Andava protetta, magari anche costretta ad allontanarsi dal territorio, come è stato fatto con i primi collaboratori di quegli anni, gestiti con sacrifici, economici e personali, delle forze dell’ordine del tempo. Non era facile, perché Marcella era impaurita e fragile. Alla fine credo che sia rimasta vittima delle sue paure, ma il suo caso è stato emblematico: ha insegnato che i collaboratori non vanno lasciati soli”.
Sergio Palma trovò la testa di Marcella Di Levrano schiacciata dal masso che, con ogni probabilità, le aveva causato la morte per emorragia cerebrale. Quando lo spostò per consentire i rilievi ai colleghi intervenuti, da sotto al corpo sgusciò fuori un serpente, uno di quei serpenti scuri e sottili tanto diffusi nelle nostre campagne, che aveva trovato il suo rifugio sotto a quella giovane Eva redenta dalla sua scelta di coraggio e il cui olocausto, a lungo trascurato, soltanto tre anni fa le è valso il riconoscimento di vittima innocente di mafia.