Poldo il randagio/I racconti di Ida de Giorgio


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Il primo ad abbaiare fu il barboncino in fondo alla stanza. Poldo drizzò le orecchie, poi aprì un occhio e sbuffò. “Quello stupido pensa sempre che i suoi padroni vengano a prenderlo”, pensò. Da quando era stato accalappiato nelle campagne intorno ad Apani, Poldo viveva in una delle gabbie del canile municipale. All’inizio, quello spazio stretto lo aveva fatto disperare, ma dopo si era abituato alla ciotola di croccantini quotidiana e alla passeggiata in cortile con i volontari. La sua preferita era una ragazza mingherlina, che non riusciva a trattenerlo al guinzaglio e finiva per lasciarlo libero di correre quanto voleva. Era nato in un giardino, da una femmina di cane corso che aveva fatto una fuitina con un meticcio girovago. Era scappato alla prima occasione, anche se gli era sembrato strano che i bipedi avessero fatto salire sua madre sull’auto, prima di andarsene via lasciando il cancello aperto. Li aveva dimenticati subito, bighellonando fra i campi e rovistando fra i rifiuti alla ricerca di cibo. Era estate e le case intorno erano piene di gente e di buoni bocconcini. A volte trovava un piatto colmo di avanzi o una ciotola di latte: doveva contendersela con qualche gatto randagio, ma la spuntava quasi sempre.
Dormiva sotto gli alberi, guardando le stelle. Dopo aver scoperto il mare, si allungava fino alla spiaggia per sguazzare in acqua, ma solo all’alba, quando non c’era nessuno oltre a qualche gabbiano. I bipedi reagivano in diversi modi, vedendolo. I più piccoli si avvicinavano con delle urla che gli davano fastidio alle orecchie, seguiti dagli adulti che gridavano altrettanto forte, strattonandoli perché si allontanassero. Qualcuno si avvicinava, pronunciando parole come: razza, molosso, bastardo, pericoloso, pulci, accalappiacani. Poldo non capiva nulla, ma l’istinto gli aveva consigliato di diradare il più possibile quegli incontri. Con l’arrivo dell’autunno, il cibo aveva cominciato a scarseggiare e Poldo si era fatto più intraprendente. Era stato allora che aveva finito per farsi catturare: si era avvicinato troppo ad una famigliola che si godeva il sole di ottobre sul patio di casa, incuriosito da uno strano contenitore con le ruote e un grosso fiocco rosa da un lato. Si era sollevato sulle zampe sperando di trovare qualcosa da mangiare, ma c’era solo una testa minuscola con un cappellino rosa. Una specie di ululato l’aveva fatto sussultare e la testa aveva cominciato a piangere.
Una serie di colpi sulla schiena l’avevano costretto a cercare un rifugio dove rintanarsi. Così erano riusciti a chiuderlo in uno stanzino e, quando la porta si era riaperta, la prima cosa che vide fu un bastone con un cappio in cima. Si era trovato catapultato in un incubo: un mostro tutto azzurro con una maschera sulla faccia lo aveva controllato dalla coda al muso, aprendogli la bocca con la forza. Poldo ringhiava e abbaiava e aveva cercato di morderlo più volte, ma il mostro non aveva paura e lo aveva girato e rigirato come una trottola, prima di portarlo in un’altra stanza, dove l’avevano lavato, strigliato e asciugato. Alla fine di quella tortura, lo avevano portato finalmente nella sua gabbia: era così stremato da non avere neanche forza di mangiare. Però si accovacciò con la ciotola di cibo fra le zampe, prima di addormentarsi: non si fidava di nessuno.
Dopo qualche giorno, aveva capito come funzionava il canile. Cibo, carezze, passeggiata. Le carezze preferiva evitarle, mostrando i denti a chi si azzardava ad avvicinare una mano con quell’intento; odiava soprattutto un ragazzo biondo, che gli aveva dato quel nome così orrendo: Poldo. Non è che ne capisse di nomi, ma conosceva quegli degli altri. Il pastore tedesco con un occhio solo si chiamava Corsaro Nero e il vecchio alano arlecchino Colosso di Rodi. Anche lui avrebbe voluto un nome da cane nobile. Cosa avrebbe pensato sua madre, incontrandolo? Sapeva di essere un mezzosangue. Ma che sangue! Ogni tanto, qualche visitatore faceva il giro delle gabbie, per scegliere uno dei reclusi. Quello era il momento peggiore, per Poldo. Sembrava che i suoi compagni di sventura perdessero ogni pudore: un continuo scodinzolare, guaire e mostrare la pancia a zampe all’aria. Gli facevano pena. Poldo si rintanava sotto la sua copertina e mostrava solo il suo grosso sedere. Anche quel giorno, dopo l’allerta del barboncino, l’intera stanza si animò. “Voglio quello”, sentì dire da una voce troppo vicina. “Poldo è un cane di grossa taglia, anche un po’ selvaggio…” disse il ragazzo biondo, con un tono dubbioso. Poldo cominciò a ringhiare, riconoscendolo.
“Papà, voglio proprio quello. Poldo”, proseguì la voce. Il cane drizzò le orecchie e decise di voltarsi, mostrando i denti con aria minacciosa, così quell’impertinente si sarebbe deciso a cambiare idea. Un bambino lo guardava, allungando un braccio fra le sbarre. Stranamente l’umano che lo accompagnava non aveva ancora reagito, sottraendolo alla portata delle sue zanne, anzi si era inginocchiato accanto al bambino, affiancando la sua mano a quella del figlio. Poldo decise di premiarli con una cauta annusata, tanto era sicuro che, alla fine, la scelta sarebbe stata un cucciolo minuscolo e tranquillo. “Guarda papà, che dentoni. Sarà un bravo cane da guardia e gli insegnerò tante cose. Però non mi piace Poldo. Ci vuole un nome più adatto. Velociraptor! No, Tirannosauro Rex! T-Rex! Ti piace T-Rex, cagnolino?” Poldo sentì la sua coda muoversi. Non aveva idea di cosa significasse, ma l’istinto gli diceva che quello era proprio un nome adatto a lui. E se un padroncino aveva pensato di chiamarlo così, meritava una possibilità. Gli avrebbe concesso un periodo di prova, al massimo lo avrebbero riportato in canile. “Ci sono da firmare dei documenti e potrete tornare domani a prenderlo”, disse il ragazzo biondo. Poldo restò solo. Quando aveva visto andar via il bambino, gli si erano ammosciate coda e orecchie, poi si era ricordato che la prassi del canile era quella. Avrebbe dovuto pazientare un giorno, ma era fiducioso. Avrebbe dovuto chiesto qualche consiglio al Colosso di Rodi, magari lui lo sapeva com’era fatto un T-Rex.