Querela del pm, ecco perché i giornalisti di Senzacolonne hanno svolto il loro mestiere

Tutto quello che si scrisse all’epoca sull’ex reggente della procura di Brindisi, Cosimo Bottazzi, era contenuto negli atti giudiziari. Non solo: il lavoro giornalistico che fu fatto rimase nel recinto del diritto di cronaca, sconfinando semmai in quell’altra zona “autorizzata” che è il diritto di critica tipico delle più penetranti inchieste giudiziarie.
Poco importa che il magistrato, oggi in pensione, avesse o meno accettato una delle prostitute procacciate da Giampi Tarantini. Forse non lo fece, ma non è questo il punto.
In sintesi è quanto è riportato nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Lecce che ha ribaltato la decisione di primo grado e assolto sette giornalisti di varie testate regionali e nazionali. Si tratta di Gianmarco Di Napoli e Roberta Grassi (difesi dall’avvocato Massimo Manfreda, nella foto), all’epoca dei fatti direttore e cronista del quotidiano Senzacolonne, di Marco De Marco, Nazareno Di Noi, Valentina Marzo, rispettivamente direttore e giornalisti del Corriere del Mezzogiorno, Stefano Costantini, caporedattore della redazione di Bari della Repubblica, e Giuseppe De Tommaso direttore della Gazzetta del Mezzogiorno.
I fatti risalgono al settembre 2011. Si parlava molto delle escort di Tarantini e sull’Ansa furono pubblicati gli stralci di una informativa della guardia di finanza di Bari redatta nell’ambito di una indagine parallela a quelle principali che tanto fecero scalpore per i riflettori puntati su Silvio Berlusconi.
Dall’Ansa, così come spesso accade, quelle pagine di atti giudiziari, seppur riferiti a una fase ancora embrionale dell’inchiesta, finirono sui giornali. Qualcuna fra le penne che si occuparono del caso, si spinse oltre ai fatti narrati e cioè una presunta cena a luci rosse organizzata a Roma, non potendo fare a meno di notare la contingenza fra alcuni fatti che avrebbero potuto in qualche modo interferire fra loro.
I giornalisti furono tutti denunciati, poi condannati in primo grado dal giudice monocratico Fabrizio Malagnino. In secondo grado la corte d’appello, presieduta da Vincenzo Scardia e composta da Patrizia Ingrascì e Giovanni Surdo (quest’ultimo consigliere estensore) ha rimescolato tutte le carte, dando una lettura diversa rispetto a quella iniziale nel definire i confini del lavoro giornalistico.
Accogliendo le tesi degli avvocati Massimo Manfreda, Michele Laforgia, Viola Messa e Amedeo Di Pietro ha fissato alcuni punti di gran rilievo anche per comprendere quali siano i paletti da rispettare e fino a che punto ci si possa spingere sulle colonne di un quotidiano o di una qualsiasi altra pubblicazione registrata che si annovera nel comparto “stampa”.
Dibattito di grande attualità, per altro.
“Posto che era doveroso riprendere la notizia – scrive la Corte – concernente senza dubbio un fatto di pubblico interesse a già diffusa in maniera più estesa in sede nazionale e locale da parte di agenzie giornalistiche ed emittenti televisivi, l’operato degli imputati risulta connotato da assenza di insinuazioni e perfetta rispondenza a una fonte oltremodo affidabile, quale un atto di polizia giudiziaria basato su precisi e pregnanti elementi di prova”.
Ancora. “La notizia veniva per di più esternata con uso di espressioni dubitative ed era accompagnata dalla dichiarazione di smentita proveniente dall’interessato, alla quale nella medesima pubblicazione veniva dato uguale risalto rispetto alla notizia”.
Si fa cenno all’utilizzo degli atti giudiziari e c’è un passaggio importante: il giornalista può riportarne il contenuto, senza dover per forza vagliare la veridicità di quanto vi è indicato: se così non fosse si chiederebbe un approfondimento investigativo paragonabile a quello effettuato dagli inquirenti. Un lavoro immane e impossibile.
Quanto a Di Napoli e Grassi, a costoro veniva contestata principalmente una frase contenuta nell’articolo pubblicato sul quotidiano Senzacolonne. “Assodato che Tarantini non faceva niente senza sperare quantomeno che i favori venissero ricambiati, l’interrogativo nasce spontaneo: da Bottazzi, invitato ai parti a luci rosse, cos’
è che voleva?
Secondo la Corte l’accostamento tra la notizia della cena e quella di una indagine in corso presso la procura di Brindisi, riguardante Tarantini, altro non era che l’associazione di due fatti veri, collegati tra loro.
“Non vengono ipotizzate o adombrate manovre illecite o colpevoli inerzie, né i giornali – specifica la Corte – nulla dicono in merito a ipotetici favori che sarebbero stati garantiti dal Bottazzi a Giampaolo o Claudio Tarantini”. Non si attribuisce insomma a Bottazzi alcuna responsabilità per abuso d’ufficio o mancato esercizio dell’azione penale. Ma ci si “limita a porre una domanda su quali potessero essere le aspettative del Tarantini nei confronti del procuratore Bottazzi, all’epoca reggente della Procura di Brindisi, o a rappresentare un potenziale imbarazzo derivante dalla contemporaneità, venuta alla luce, tra l’inchiesta brindisina e i fatti emersi”.
“In questo modo – quindi – venivano offerti spunti di riflessione al lettore lasciando allo stesso di trarre le conclusioni e formarsi un giudizio critico sul comportamento di un magistrato. Secondo un modus procedenti tipico delle inchieste giornalistiche, peculiare e penetrante espressione del diritto di critica”.
Da qui la decisione finale. Stefano Costantini è stato assolto per non aver commesso il fatto; Marco De Marco, Nazareno Di Noi e Valentina Marzo, con la formula “perché il fatto non sussiste”, Gianmarco Di Napoli, Roberta Grassi e Giuseppe De Tommaso, perché il fatto non costituisce reato