Ricciotti Garibaldi nel 1912 salpò da Brindisi per la Grecia: l’ultima spedizione

Dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453 e l’assedio – senza successo – a Vienna nel 1683, l’impero turco dopo aver toccato l’apogeo della sua potenza iniziò il suo, pur se lento, inarrestabile declino. In Europa, la Grecia fu la prima che dopo quasi mezzo millennio di dominio turco, tra il 1829 ed il 1832 riuscì a ricostituire un’entità statale indipendente, su di un territorio ancora mutilato e dopo anni di rivolte e di lotte cruente. E le rivendicazioni greche non cessarono durante tutto quel XIX secolo, raccogliendo in tutta Europa – in Italia in primis, ma non solo – le simpatie romantiche o tangibili, di singole personalità e di interi movimenti, intellettuali libertari e di azione – anche militare – che determinarono l’insorgere del detto “ellenismo”, la riscoperta cioè e la mitizzazione dell’antichità preclassica e classica della Grecia: la sua cultura, l’arte, la tradizione letteraria.
E in quel secolo XIX era stata in particolare Creta – Candia, la grande isola dell’Egeo meridionale abitata da Greci e Turchi – ad essere periodicamente scossa da rivolte antiturche che in più occasioni avevano innescato formali conflitti armati tra Grecia e Turchia. Era accaduto, in particolare, nel 1866-67 e nel 1897.
«Nel 1866, l’isola di Creta essendo insorta, oltre 2.000 volontari italiani e 80 ufficiali vi si recarono, partendo alla spicciolata dai porti adriatici con piccoli velieri e con i due vapori ‘Panhellenion’ e ‘Idra’… Fra l’altre, a principio del 1867, una spedizione di una quarantina circa di Toscani partì da Livorno e avendo toccato Caprera, a questa si unì il non ancora ventenne Ricciotti Garibaldi» [da un articolo di Ettore Socci]. Alcuni dei gruppi formati da volontari italiani parteciparono a vari combattimenti sull’isola e tra loro ci furono numerosi caduti, all’incirca una trentina in tutto tra i quali il ventisettenne tenente Achille De Grandi. Alcuni altri gruppi armati di italiani si diressero sulla terra ferma di Grecia in vista dell’attacco dell’esercito greco sulla frontiera epirota tra Joannina Prevesa e Arta, ma finalmente le pressioni diplomatiche delle potenze europee – in primis Austria e Russia – obbligarono il governo greco a desistere e così l’intera rivolta rientrò, e il giovane Garibaldi con il suo gruppo toscano comandato dal colonnello Andrea Sgarallino lasciò Atene e rientrò in Italia, via Brindisi.
Nel 1897, nuovamente in seguito ad una insurrezione di Creta e questa volta nel contesto di una guerra formalmente dichiarata dalla Turchia alla Grecia, nonostante le varie difficoltà interposte dalle autorità italiane ufficialmente neutrali, il generale Ricciotti Garibaldi – all’epoca già cinquantenne – salpato con un gruppo di volontari da Brindisi il 21 aprile con la nave Peloro, raggiunse la Grecia via Corfù per porsi al comando di poco più di un migliaio di volontari – esattamente 1.323 distribuiti in 4 battaglioni – accorsi al suo proclama da tutte le regioni d’Italia, e non solo.
«…Così, la mattina del 21 aprile 1897, partii per Brindisi solo e all’insaputa di tutti, fuor che di mio fratello Menotti, d’Ettore Ferrari, di Gattorno e di qualcun altro. Arrivato a Brindisi mi furono prodighi di gentilezze i signori Giustino Durano, direttore dell’Indipendente, il cavaliere Dell’Aira, il signor Cocotò, console greco, i signori Mariani, Vittale e altri vecchi garibaldini; e sino l’egregio delegato gentilmente si mise a mia disposizione! Qui assistei a una delle solite scene di quei giorni: una quantità di giovani che volevano imbarcarsi, fra i quali ricordo il bravo Giuliano Bonacci, figlio dell’ex ministro, e Carnacina che poi risultò un eccellente ufficiale…» [La Camicia Rossa nella Guerra Greco-Turca 1897 di Ricciotti Garibaldi, 1899].
Ad Atene Ricciotti ricevette l’ordine dal comandante delle forze greche, il principe Costantino, di raggiungerlo a Domokos in Tessaglia e lì, il 17 maggio, si consumò il duro scontro con i Turchi. «Nella battaglia a Domokos, 850 Camice rosse respingevano tutta la divisione turca di Hairi Pascià salvando, se non altro, l’onore delle armi greche» [Ricciotti Garibaldi]. Quella battaglia contro forze soverchie costò la vita a ventidue dei garibaldini, molti dei quali erano salpati da Brindisi e tra loro anche lo sfortunato deputato Antonio Fratti. Dopo una difficile ritirata, seguì la firma dell’armistizio tra Grecia e Turchia e la guerra terminò. La spedizione italiana, ringraziata con onori dal governo e dal popolo greco, fu quindi prosciolta e il 1º giugno a bordo dell’Urania un centinaio di garibaldini rientrò a Brindisi con il comandante Ricciotti.
«…Finalmente, verso le dieci antimeridiane del primo giugno, ci venne incontro la lancia a vapore di un vecchio pilota, il quale si scoperse gridando: viva l’Italia! viva la Grecia! E venne a bordo della nostra Urania per condurla all’ancoraggio entro il magnifico porto di Brindisi. Avvicinandosi il vapore alla banchina, vennero a bordo il rappresentante del sottoprefetto, il capitano dei carabinieri e qualcun altro. Per poter discutere più liberamente li portai nella cabina del nostro buon capitano. Questi signori si mostravano alquanto impensieriti per lo sbarco di tanti volontari vestiti di rosso e volevano prendere delle misure per impedire possibili disordini. Ma i volontari decisero la questione per conto loro.
Intanto che nella cabina si discuteva, il vapore si era avvicinato alla banchina. In quella cabina faceva un caldo da forno e il capitano dei carabinieri che non ne poteva più, stretto com’era nel su uniforme, aprì la porta e mise fuori la testa per prendere una boccata d’aria. Ma subito la ricacciò indietro, dicendo con aria costernata: “Intanto che noi discutiamo, i volontari sono già scesi!” Questa scenetta mi fece molto ridere. E così era veramente. Usciti tutti dalla cabina, si videro i nostri volontari in mezzo alla folla delirante che li abbracciava e li acclamava, entusiasmata di quella splendida gioventù che così altamente aveva onorato la nostra Italia…» [La Camicia Rossa nella Guerra Greco-Turca 1897 di Ricciotti Garibaldi, 1899].
Quindici anni ancora, ed ecco giunto il 1912, con il generale Ricciotti Garibaldi sessantacinquenne, invecchiato nel fisico ma non certo nello spirito, uno spirito romantico e battagliero che si era inoltre ampiamente effuso anche tra tutti i suoi figli, sette maschi e due femmine: Peppino, Ricciotti jr, Menotti jr, Sante, Bruno, Costante, Ezio, Rosa e Italia.
In quell’anno la situazione politica nei Balcani ritornò a fermentare: nel 1908 a Istambul avevano preso il potere i ‘giovani turchi’ e la Turchia entrò in guerra con l’Italia, che era sbarcata in Tripolitania ed in Cirenaica con l’obiettivo poi concretizzato di costituire la sua colonia di Libia. Tra 1910 e 1911 nelle regioni turche di popolazione maggioritaria albanese – Scutari, Giannina, Kossovo – riprese la rivolta indipendentista e nel settembre 1912 quelle province ottennero una limitata autonomia. Infine, a ottobre, iniziò la Prima guerra balcanica, dichiarata da Serbia Montenegro Bulgaria e Grecia alleatesi contro la Turchia, mentre l’impero ottomano era ancora impegnato contro l’Italia. Scoppiata la guerra, Ricciotti decise che bisognava partecipare con un corpo di volontari garibaldini in aiuto della Grecia.
La Grecia, entrata in guerra il 18 ottobre, il 2 novembre assediò e prese Prevesa, puntando sulla molto ben difesa Joannina, dove l’esercito turco resistette a lungo e dove furono concentrate le Camicie Rosse di Ricciotti con a capo di stato maggiore Peppino Garibaldi, il suo figlio primogenito. I garibaldini parteciparono dapprima ad alcuni scontri minori e poi, il 9 dicembre e per altri due giorni, a quello molto impegnativo di Driskos, una piccola località collinare di fronte a Joannina che continuò a resistere anche quando iniziarono, a metà dicembre, le trattative per l’armistizio e, finalmente, capitolò il 5 marzo 1913, segnando di fatto la fine della guerra.
Radunati i volontari presso l’università di Atene, in otto giorni – durante la prima metà di novembre – il corpo dei garibaldini del generale Ricciotti Garibaldi fu pronto per raggiungere le quasi mille Camicie Rosse greche che al comando del colonnello Alexandres Romas erano già da giorni partite per il fronte. Poi però, si dovette attendere ancora qualche giorno affinché arrivasse ad Atene il materiale bellico inviato dall’Italia che aveva subito vari disguidi e, finalmente, con più di mille Camice Rosse – 1.166 – Ricciotti e suo figlio Peppino partirono per il fronte, a Nord verso Joannina, che dopo vari giorni di ogni sorta di ostacoli, di neve e di marce forzate, raggiunsero i primi di dicembre.
Intorno a Driskos, strappata ai Turchi che l’avevano fortificata e munita di numerose bocche da fuoco, si consumò la grande battaglia delle Camice Rosse, 27 ore effettive di duri combattimenti su tre giorni continui: 9, 10 e 11 dicembre. Vi parteciparono tutti i battaglioni della spedizione garibaldina, i due di Alexandres Romas, quello di Gerolamo Bianchini e quello di Brown Frank Cooper, appoggiati dai riparti Ambulanza Genio e Treno, e coordinati – tutti – da Ricciotti Garibaldi, costantemente presente sul campo. Poi, con le forze turche sopraggiunte in numero assolutamente soverchiante, a metà del terzo giorno per i circa 1.400 uomini rimasti in armi dopo i caduti e le varie centinaia di feriti, giunse dal comando generale greco l’ordine d’evacuazione graduale delle strategiche posizioni conquistate a Driskos: tra l’assediata città di Joannina e le sua cintura di fortificazioni “così vicini ad essa, che, con i cannocchiali, vedevamo la gente circolare nelle sue vie”.
Le perdite della Legione garibaldina furono circa 400 a fronte delle 2.000 stimate per quelle delle le forze turche. L’obiettivo di distogliere il grosso delle truppe ottomane per dare la possibilità e il tempo all’esercito regolare greco di conquistare gli obiettivi strategici dell’area, era stato pienamente raggiunto dalle azioni affidate alle Camice Rosse e così, il 14 dicembre, in coordinazione con il governo e con lo stato maggiore greco, il generale Ricciotti dichiarò formalmente disciolta la Legione, ordinandone il disciplinato rientro.
Il percorso di ritorno dei garibaldini verso Atene non fu meno accidentato di quello di andata, e anzi fu enormemente complicato dal trasporto dei numerosi feriti, ma infine, superando anche le nuove difficoltà, si compì abbastanza ordinatamente. E il governo, lo stato maggiore e il popolo greco, seppero, riconobbero ed esaltarono “la splendida figura fatta dal piccolo corpo di spedizione di circa duemila uomini con soli tre cannoni, che per tre giorni con ventisette ore di fuoco sostenne l’urto di un bravo nemico, forte da otto a diecimila uomini e venti o trenta bocche da fuoco, perdendo un quinto del suo effettivo.” Il 28 dicembre, Ricciotti Garibaldi con un gruppo dei suoi volontari rientrò a Brindisi a bordo del piroscafo Ismene.
Ricciotti Garibaldi volle raccontare quella sua “ultima spedizione armata” in un libro che fu pubblicato nel 1915 “La Camicia Rossa nella Guerra balcanica. Campagna in Epiro 1912” e dalla lettura, interessante e amena del suo racconto – un memoriale, una specie di rapporto tecnico particolareggiato corredato da varie appendici documentarie – ho estratto, e qui trascrivo, i simpatici episodi in cui racconta della sua partenza da Brindisi.
Il 22 ottobre 1912, ricevuta finalmente dal suo amico, il deputato greco e garibaldino di vecchia data conte Alexandres Romas, la notizia dell’autorizzazione del governo greco alla partecipazione di 2.000 Camicie Rosse – 1.000 delle quali già in Grecia organizzate dal colonnello Romas – Ricciotti, che già da qualche tempo fremeva, ultimò i preparativi e in pochissimi giorni:
«…Accompagnato dalla mia signora [l’inglese Costance Hopcraft] e da mia figlia Italia [poi lo raggiunse in Grecia anche l’altra figlia Rosa] che venivano anch’esse come infermiere, partii per Brindisi… Giunti felicemente a Brindisi, perdemmo un giorno, per mancanza di vapore. L’indomani mattina [31 ottobre], andati a fare colazione in un ristorante, fui raggiunto da tre signori che si qualificarono come Autorità prefettizie e di polizia, ed entrarono in amichevole conversazione. Ma ben presto si rivelarono nel loro vero carattere, e mi fecero capire che non mi sarebbe stato consentito l’imbarco per la Grecia.
Io intanto, in previdenza di quello che poteva succedere, avevo pregato in inglese, lingua che essi non capivano, la mia signora, di recarsi a bordo del vapore con bagagli, e di non muoversi sinché non venivo io. Infatti, recatasi al vapore insieme a nostra figlia, e vedendo la scala principale guardata a vista, da agenti e carabinieri, facendo finta di nulla, andarono verso la prua del vapore, ove in un attimo, trovata la scaletta dell’equipaggio, salirono a bordo, e riuscirono a far montare anche il bagaglio. Minacce e blandizie di ogni genere furono impiegate per persuadere le due signore a scendere, ma ben presto prevalse la loro ostinazione anglosassone, e furono lasciate in pace. Si tentò anche di ritrasportare a terra il bagaglio, ma anche questo dovette restare dov’era.
Intanto io ero rimasto al ristorante cercando di persuadere i tre illustri uomini, che infine io avevo tutto il diritto, non essendovi nulla che per legge me lo impedisse, di andarmi a far ammazzare, ove più mi piaceva. Ma essi, non so se nel codice o nelle loro istruzioni, scovarono un articolo che diceva che si dovevano impedire le partenze anche a chi si poteva sospettare d’intenzione di contravvenire la legge! Io, finalmente, perduta alquanto la pazienza, intimai che all’ora stabilita sarei andato a bordo, ed avrei proceduto a vie di fatto contro chiunque avesse tentato d’impedirlo, perché siccome ciò doveva necessariamente provocare il mio arresto, la questione sarebbe stata portata avanti al pubblico.
Questa minaccia mise alquanto in orgasmo il rappresentante del sottoprefetto ed allora io espressi un parere, cioè che forse il metodo più logico era di domandare nuove istruzioni a Roma. La fisionomia delle Autorità si rischiarò subito, e tutti e tre si allontanarono per mettere in esecuzione il suggerimento. Però li trattenni, annunziando che già fin d’allora avrei potuto dire quale sarebbe stata la risposta del Governo. Grande meraviglia: “Quale sarà la risposta?” Il Governo – risposi – non vi risponde! E fui profeta!
Per dare tempo alle Autorità di ricevere la nota risposta, si era rimasti d’intesa anche con l’agente della navigazione, che il vapore sarebbe partito la sera, e andai a salutare gli amici, tra i quali il buon scultore [Edgardo] Simone che tanto si prestò ad aiutare alcuni dei volontari a partire. Non incontrai difficoltà per montare sul vapore Epiro, ove poco dopo fui raggiunto dal carissimo amico l’onorevole [Pietro] Chimienti, deputato di Brindisi, con altri conoscenti e i corrispondenti di diversi giornali che si divertono un mondo per le mie peripezie.
In questo frattempo, non venendo alcuna risposta da Roma e dovendo il vapore partire per forza, mi fu rivelato un piccolo complotto escogitato per farmi rimanere sino all’indomani a Brindisi. Siccome prima della partenza a bordo non si provvedeva pel pranzo; per mangiare era giocoforza andare a terra, e si contava su questa nostra assenza momentanea, con una scusa o l’altra per fare ripartire il piroscafo. Naturalmente si mandò a prendere il cibo necessario, e non si mancò di utilizzare questa circostanza, essendovi diversi giovani a terra che volevano partire, ma che ne erano impediti dalla forza pubblica.
Uno di questi, il dottore Carlo De Rei, fu camuffato da facchino e portò lui la cesta, contenente il nostro cibo. Però, una volta a bordo, fu nascosto nella nostra cabina.
Giunta l’ora stabilita, o che le Autorità non avessero ricevuto risposta da Roma – come pare – o che fosse riuscita efficace la protesta del nostro bravo capitano B. Gentili, fermo nel dichiarare che ad ogni costo intendeva partire se non fermato con la forza, fatto sta, che vedemmo con molto piacere il vapore staccarsi gradatamente dal molo, e prendere la via di Corfù. Via Vallona perché – convinto che in tempo di guerra sia bene vedere quanto si può del nemico – prima di partire da Brindisi avevo rivolto preghiera di ciò all’egregio e cortese agente signor Teodoro Titi della Società Puglia… Così, lasciato il magnifico porto di Brindisi, l’indomani mattina all’alba entrammo nel porto di Vallona, che è un porto da fare invidia a chi sia…»