Sempre libera degg’io/ I racconti di Ida de Giorgio

Zia, tu c’eri, nel Sessantotto?” “Come mai vuoi saperlo?” chiedo incuriosita e speranzosa che il mio nipotino si interessi alla mia gioventù. “Ne ha parlato la maestra, dobbiamo fare un compito sulla libertà. Deve essere storia antica.” Mi guarda come fossi la mummia di Tutankhamon, facendomi piombare addosso il peso di quegli anni che cerco invano di ingannare con aerobica e cure estetiche.
Il piccolo mostro impertinente ha un modo tutto suo per farmi sentire decrepita, come domandarmi se ho visto il Colosseo durante la sua costruzione o se Aristotele fosse un mio compagno di classe. Il senso del tempo non è ancora fra le sue prerogative.

Nel Sessantotto io avevo dieci anni: troppo piccola per interessarmi al Vietnam o al maggio francese.
Ricordo meglio il post-sessantotto: le assemblee, le manifestazioni femministe e gli studenti del liceo, divisi fra fascisti e comunisti, che si picchiavano nel cortile interno del Marzolla.
Ho ancora una foto di me, dietro ad uno striscione, ad un corteo studentesco a favore dell’emancipazione femminile. Mio padre tornava a casa arrabbiato, dicendo che la polizia era andata ad interrogarlo sulle mie idee politiche, ma io non ci ho mai creduto. Se proprio avevano intenzione di indagare sulla natura della mia contestazione, perché non venivano a chiedere direttamente a me?
Comunque, quegli anni sono stati quelli della mia formazione morale e sociale: una cosa era chiara per me, volevo decidere della mia vita. Essere libera, insomma. Il sogno di ogni ragazza che volesse sfuggire al trinomio: matrimonio, figli, cura della casa, con il lavoro come utile corollario alla partecipazione alle spese domestiche, non come realizzazione di ambizioni proprie. Col senno di poi, mai affermazione fu più illusoria di questa.

Infatti, cosa significa: essere liberi?
Sono sicura che ciascuno di noi ha una propria, personale, interpretazione. Vivere da soli? Mantenersi da soli? Esprimere le proprie opinioni? Perché, questa parola, Libertà, per sua stessa natura, non può essere confinata in una sola definizione linguistica. È pura utopia. Pensateci, per quanto liberi, siamo sempre limitati da qualcosa. Possiamo andarcene in giro nudi, se fa caldo? Possiamo esimerci dal pagare le tasse? Possiamo andare in pensione, finché siamo in grado di godercela?
Anche quando decidiamo di seguire i nostri sogni, conserviamo sempre dei legami: la famiglia, il lavoro, la città, la religione. Difficile abbandonare tutto e sentirsi veramente liberi.
E anche quando riusciamo ad essere il più possibile vicini a questo concetto utopico, ecco che l’invidia della gente si scatena e questa presunta libertà viene malvista.

Quando sono tornata a Brindisi, per un trasferimento di lavoro, ho incontrato un amico dei tempi scolastici che, sentendo che lavoravo, vivevo da sola e non mi ero sposata, commentò: “Si capiva che eri strana”. E tenete presente che, allora, avevo trentuno anni, nel pieno delle mie potenzialità, quindi, la stranezza, quale era? Non adeguarmi ai modelli canonici dell’epoca? A ben rifletterci, per me che sono un’accanita lettrice, anche nella letteratura, dove i sogni possono diventare realtà, c’è questa paura di rappresentare una condizione che si possa definire “libera”. Prendiamo, ad esempio, Robinson Crusoe. Chi non ha desiderato vivere su un’isola deserta almeno una volta, nella vita? Un buon ritiro, lontano da rogne, parenti, obblighi e convenzioni. Per quanto vittima di un naufragio, Robinson aveva realizzato il sogno proibito di molti. Passato il primo momento di panico, si era organizzato: capanna confortevole, orto, caccia, pesca. Certo, aveva da leggere invece di seguire le partite del campionato di calcio, ma tutto sommato poteva fare ciò che più gli aggradava, quando gli garbava. Gli mancava una Eva, per essere felice nel suo Eden. E che fa l’autore? Deve trovare un difetto alla sua libertà, altrimenti cosa lo avrebbe accomunato alla triste sorte del resto degli uomini? Così, invece di una sirena o di un’indigena dalle dolci curve, gli manda Venerdì. Per carità, un compagno più che onorevole e anche politically correct, se non fosse per l’annesso pericolo dei cannibali. Perché un limite lo doveva avere, il povero Robinson, per essere costretto a rientrare nella società!

Esempio ancora più calzante, Tarzan. Se, Robinson, qualche nostalgia l’aveva, Tarzan non ha ricordi della sua vita civile. È fruttariano, perché è cresciuto con le scimmie, quindi neanche la fatica di coltivare o cacciare: allungava un braccio e agguantava un frutto. Lo rispettano tutti gli animali della foresta, compreso il leone: gli basta lanciare un urlo e tutti accorrono.

Una vita da papa, nella beata innocenza. E invece, arriva Jane e con lei tutta la complicazione della famiglia che, il nostro, ignorava di avere. Quindi, la libertà non esiste neanche nella fantasia!
Ma come glielo spiego, questo, a mio nipote? Così gli parlo di ribellione e conquiste sociali, di diritti e autonomia. Gli spiego che è importante essere soddisfatti della propria vita, avere idee costruttive, aiutare gli altri e godersi il tempo libero, avere delle opinioni e saperle esprimere. O almeno provare a fare tutto questo. Mi molla a metà discorso: “Uffa, zia, quanto parli!” e se ne va nella sua stanza a giocare con il tablet. Beh, non posso neanche lamentarmi: se ha capito come fare a liberarsi di me, la mia spiegazione è stata esauriente.