
Mi chiamo Isabelle. Questo è il nome che mia madre mi ha dato quando sono nata, settima figlia di una vedova melanconica, in una villa su un lago svizzero. Era il 17 febbraio del 1877. Non so chi fosse mio padre, forse il precettore che curava la nostra educazione e che ha vegliato su di me finché è stato in vita. O, come a volte fantasticavo, uno sconosciuto artista ribelle in una notte di follia. La mia nascita provocò scandalo e ci allontanò per sempre da quella che era la nostra patria, la Russia. Ripudiati, senza più origini, ci sentivamo apolidi, considerati eversivi, additati e controllati dalla polizia elvetica, confinati in un luogo che non potevamo chiamare casa.
Mi sono immersa nello studio. Francese e tedesco, storia, letteratura. La mia sete di conoscenza era insaziabile. Non potendo fuggire da quella che consideravo una prigione, volavo con la fantasia verso luoghi lontani. I miei fratelli, uno per uno, cercarono altrove la loro strada. Anche il più amato fra loro, Augustin, fuggì per arruolarsi nella Legione Straniera. È così che ho scoperto il Maghreb, volevo conoscerlo per sentirmi vicino a lui. Ho studiato l’arabo, ho letto il Corano, ho capito di aver trovato la mia ragione di vita. Inventai una nuova Isabelle, in sembianze maschili spedivo lettere a poeti e avventurieri, alla ricerca di notizie e storie sul mondo del deserto. Compravo saggi e libri. A volte i miei articoli, velati di esotismo orientale, venivano pubblicati sulle riviste. Ho usato ogni volta uno pseudonimo diverso, spacciandomi per un uomo, non avendo ancora trovato la mia identità. Volevo diventare scrittrice, trasferire sulla carta l’amore sconfinato che provavo per un luogo che non avevo ancora mai visto. Finalmente sono partita con mia madre, sulle tracce di mio fratello. Destinazione Annaba, Algeria.
La prima volta che ho accarezzato la sabbia del deserto, ho capito. I granelli fuggivano via dalla morsa delle dita e si disperdevano nel vento. Per quanto mi sforzassi di serrare il pugno, sul palmo della mia mano non restava nulla. Io mi sentivo così, niente poteva trattenermi, niente poteva placare l’ansia che mi tormentava come una malattia. Oggi qualcuno direbbe, nascondendosi dietro teorie psicologiche, che la mia era solo la ricerca di un padre mai conosciuto. Ma io penso che nasciamo figli di una terra: ad un certo punto della vita essa ci reclama, anche se siamo lontani da lei. Io ero figlia del Sahara. È lui, il mio unico padre. Ritornare in Europa mi provocò un dolore indicibile, ma poi, finalmente, decisi di vivere in quella che era la mia vera casa. Mi rasai i capelli, indossai abiti da beduino, l’Islam diventò la mia religione. Ho scelto il nome che mi si addiceva di più, Mahmoud Saadi, come il poeta. Nelle sue parole c’è la mia essenza: “Un viaggiatore senza conoscenza è un uccello senza ali”. Appuntavo sul mio diario incontri e sensazioni che prendevano vita sulle pagine di un giornale. Nomade fra i nomadi, rispettata dai miei fratelli di fede e odiata dalla gente a cui appartenevo per nascita. La diversità è una colpa. Strega, spia, aberrazione del genere femminile, la civile società francese mi considerava un fastidio e venni espulsa dall’Algeria. Ma questo non mi ha fermato. Il deserto è grande, il mio posto era fra le sue dune. Incontrai l’amore. Non uno sceicco, non un principe, ma solo un ufficiale di cavalleria. Se il Maghreb era il mio infinito, Slimène era il mio punto fermo.
Da lui sono tornata sempre, anche quando la febbre che mi divorava non mi consentiva di restare troppo a lungo ferma in un posto. Nel mio peregrinare ho incontrato amici fedeli e condiviso esperienze mistiche addentrandomi fra le parole del profeta con i maestri sufi. Non bastò a darmi la pace, un fanatico mi colpì con una lama e, di nuovo, la mia punizione fu l’esilio. Ero vittima ma colpevole di aver provocato l’indignazione dei benpensanti. Sovversiva e pericolosa, mi definirono. Io, che non cercavo altro che una vita libera, solitaria, lontana dalle convenzioni civili. Anche questa volta l’angoscia fu immensa, la vita a Marsiglia peggio di una tortura. Tornai in Algeria per il processo al mio attentatore, gli amici mi sostenevano. Slimène mi era accanto. Stranamente anche la gente cominciò ad apprezzarmi. Ma non è bastato a farmi restare, dovevo attendere ancora prima di rivedere il Sahara. Quando lasciai l’Europa, tagliai i ponti con tutto il mio passato, anche con il mio adorato fratello Augustin. Ora che mi sentivo finalmente libera, la malaria si impossessò di me, ma non riuscì a sconfiggermi. Continuavo a scrivere, amata e odiata allo stesso tempo, in difesa dei popoli del deserto. Contro quella volontà colonialista che li voleva nemici da annientare. Tornai a viaggiare. Accolta da amica dalle tribù più bellicose, raccoglievo le loro testimonianze cercando di far conoscere la realtà di una cultura così profonda, la stessa che sentivo mia. Diventai leggenda. Ma il male era in agguato, l’ospedale mi accolse. Sono uscita ancora febbricitante per rivedere Slimène. Avevo preso in affitto una casa sulla riva arida di uno uadi. Un tetto di paglia e pareti di terra. Immersa fra i colori del deserto, cercavo di attingerne l’energia vitale. Una pioggia lontanissima sulla cima di una montagna ha riempito gli alvei secchi, è piombata fra le dune, mi ha travolto. Non so se è stata una punizione del Dio che avevo abbandonato o la misericordia di Allah che voleva porre fine alle mie sofferenze. Ma una morte così anomala, fuori dalle regole, mi si addiceva. Avevo ventisette anni. Mi hanno trovato dopo alcuni giorni, circondata da fogli sbiaditi pieni di appunti. Gli occhi rivolti all’immensità del Sahara, il cuore pieno di sabbia.