Vito Ditano: la straordinaria epopea del ciclista fasanese in un libro


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Di Marina Poci per il numero 422 de IL7 Magazine
Negli ultimi giorni di malattia, un tumore al polmone che il 5 febbraio scorso in soli sette mesi se l’è portato via, il due volte campione mondiale di ciclocross e sei volte campione italiano Vito Ditano, ricoverato nell’ospedale di comunità a Fasano, dalla finestra della sua stanza riusciva a vedere la strada su cui aveva vinto la sua prima gara ciclistica da bambino: lo diceva alla figlia Mariagrazia, che sino all’ultimo istante gli è stata vicina, con la lucidità e la pacificazione che in prossimità della morte possiede soltanto chi ha vissuto una vita piena e ricca, per quanto difficile. Era, quella strada impressa nei suoi occhi sino all’ultimo istante, un cerchio che si chiudeva, simbolo di un legame mai interrotto con la sua amata bicicletta. Pedalava, Vito, anche dopo che aveva smesso di praticare lo sport a livello agonistico e pedalava nonostante la sclerodermia, una malattia autoimmune con cui aveva convissuto per una ventina di anni e che, malgrado fosse complicata da gestire, non gli aveva tolto il piacere di andarsene in giro in bici per le campagne fasanesi.
A distanza di pochi mesi dalla sua morte, Mimmo Ciaccia, appassionato ciclista carovignese, anima del gruppo Bici e Solidarietà, autore di diversi libri aventi la bicicletta come protagonista (e “solo occasionalmente consulente del lavoro”, come scherzando ama definirsi), ha scritto “Non ci credo”, un libro che ripercorre la storia di Vito Ditano dalla nascita, il 23 settembre 1954, nella contrada Sorba, ai margini della Selva di Fasano, tra i muretti a secco che dividono la provincia di Brindisi da quella di Bari: “Ho conosciuto Vito Ditano tre anni fa, in occasione della presentazione di uno dei miei libri dedicati alla mia passione per la bicicletta. Lo invitai perché lo consideravo una sorta di autorità in materia. Diventammo amici e dopo qualche tempo mi prospettò il desiderio che qualcuno scrivesse della sua vita. Non gli interessava tanto far conoscere le sue vittorie sportive, quanto raccontare la sua storia di riscatto, da quando, primogenito di cinque fratelli, a causa del divorzio dei genitori dovette lasciare la scuola da bambino per aiutare la madre a mantenere la famiglia”.
“Mio padre ha immediatamente compreso la gravità della sue condizioni di salute”, aggiunge la figlia Mariagrazia, “sapeva bene che non si sarebbe salvato. Però, forse per esorcizzare la paura della morte, diceva che, se fosse sopravvissuto al tumore, avrebbe voluto che qualcuno scrivesse insieme a lui il libro della sua vita. Purtroppo non ce l’ha fatta… Nonostante questo, io, mia sorella e mio fratello abbiamo sentito quasi il dovere morale di rispettare questo suo desiderio. Il resto è venuto molto spontaneamente, con Mimmo che ha scritto in soli tre mesi questo bellissimo ritratto di papà. Non soltanto del campione, ma dell’uomo. Del figlio, del marito, del papà. Perché, indipendentemente da tutto, se per gli altri era il due volte campione mondiale di ciclocross, per me era soltanto il mio grande papà. Tra il lavoro e le gare è stato poco presente nei primi anni delle nostre vite, ma ha recuperato in fretta dopo che abbiamo perso nostra madre, morta ad appena cinquant’anni per un tumore molto aggressivo. È stato un genitore affettuoso e premuroso, un nonno attento e giocherellone e un grande risolutore. Non l’ho mai visto rimuginare sui problemi, ogni volta che succedeva qualcosa di brutto, il suo pensiero andava immediatamente alla ricerca di una possibile soluzione. Era il suo modo di vivere, aveva dovuto imparare da piccolo ad arrangiarsi”.
Da pastore prima e garzone poi, trascorreva le giornate tra i lavori più faticosi, occupandosi del bestiame di famiglia prima e trasportando bibite a domicilio con una bicicletta poi: fu proprio durante quelle consegne che scoprì la passione che lo avrebbe reso un campione.
La sua prima vera bicicletta gli fu regalata da un ex emigrante rientrato dal Belgio, terra di ciclisti: un dono prezioso e destinato a cambiare il corso della vita del giovanissimo garzone, perché con quel mezzo iniziò ad allenarsi sulle strade nei pressi di casa, ritagliandosi del tempo tra un lavoro e l’altro. Nonostante i primi successi, Vito non smise mai di lavorare: per un periodo fece il muratore, poi trovò un impiego come ferroviere. “Diceva che non poteva permettersi di rischiare, Aveva il terrore che, se il sogno non si fosse realizzato, sarebbe dovuto tornare alle difficoltà vissute nell’infanzia e nell’adolescenza”, spiega Mimmo Ciaccia.
Il destino bussò durante un periodo di lavoro a Bergamo, quando conobbe i fratelli Guerciotti, storica famiglia di costruttori di biciclette e promotori del ciclocross in Italia. Uno di loro lo prese sotto la sua ala, spingendolo a provare quella disciplina che in quegli anni stava crescendo anche da noi. Per il giovane Vito fu una rivelazione: la potenza, la resistenza, la capacità di soffrire e di rialzarsi dopo ogni caduta fecero di Ditano un atleta perfetto per quella passione alla quale, a quei tempi, pochi erano disposti a riconoscere la dignità di disciplina sportiva.
Nel 1969 aveva già partecipato ai Giochi della Gioventù con la Libertas Fasano. Nel 1978, con la maglia del Gruppo Sportivo Guerciotti, arrivò il salto di qualità: quinto ai Mondiali di Amorebieta, in Spagna, e subito protagonista nelle competizioni internazionali.
Il primo trionfo mondiale arrivò nel 1979 a Saccolongo, in provincia di Padova, poi il bis nel 1986 a Lembeek, in Belgio, patria dei maestri del ciclocross.
Sul tetto del mondo c’era un ragazzo del Sud, come lui stesso ebbe a dire pochi istanti dopo aver tagliato il traguardo: un evento che sorprese l’Italia sportiva e pure i gufi che per anni gli avevano remato contro, non ritenendolo all’altezza dei campioni europei. Intervistato a caldo dal cronista Adriano De Zan, commentò “Non ci credo”: “Quando ho dovuto scegliere il titolo del mio libro, non ho avuto dubbi: quella frase riassume completamente la storia di riscatto di Vito. Anche se, in realtà, pronunciando quelle parole aveva barato: tutta la sua vita era stata una ricerca verso il titolo mondiale. Nel suo “non ci credo” c’era la consapevolezza di un percorso durissimo, di una vita intera spesa impegnandosi a conquistare quei trofei”.
In carriera fu anche sei volte campione italiano (1980, 1982, 1983, 1984, 1986 e 1987) e riportò numerosi piazzamenti nelle prove iridate. Parallelamente, si cimentò anche su strada e in pista: campione pugliese nel 1977, nazionale dilettanti al Giro di Jugoslavia nel 1974 (chiuso al terzo posto nella classifica generale), vincitore di tappa al Giro del Messico nel 1976 e di diverse classiche italiane, come la Coppa San Rocco di Locorotondo e la Coppa Messapica.
“Quello che mi ha sempre colpito di Vito, con cui ho avuto un’amicizia breve ma molto intensa, è stata la sua capacità di mantenersi umile malgrado i successi. La bicicletta è rimasta al centro della sua vita: continuava a pedalare per le strade di casa, tra Fasano e Pezze di Greco, e trasmetteva la sua esperienza come allenatore del team Guerciotti e vice allenatore della Nazionale Italiana di ciclocross. Era un uomo schietto, trasparente, di poche parole, ma di grande cuore. Trattava la bicicletta come una persona: la rispettava, la curava, la considerava una compagna di vita”, ricorda Mimmo Ciaccia.
“Penso che l’esempio di mio padre sia da custodire e da diffondere, non soltanto nel mondo dello sport: a noi figli ha insegnato il rispetto per gli altri e la tenacia. Laddove si vuole, si può. Anche quando sembra che non ci siano i mezzi e le condizioni ideali per realizzare i propri sogni e anche se si parte dal basso: laddove si vuole, si può”, conclude Mariagrazia Ditano.