Vacanze natalizie o elogio della lentezza

Domani si torna a scuola. Troveremo ragazzi mezzo addormentati, svogliati, capaci di rispondere, se li si richiamerà ai propri doveri, “Professorè, non ho avuto tempo” dopo diciassette giorni di assoluto poltrire.

Penso che, al di là delle convenzioni sociali, che ci vogliono sempre all’erta e sempre pronti all’azione, questo ozio vacanziero sia un diritto sacro. Alzarsi al mattino e ringraziare Dio di non avere pensieri, preoccupazioni, impegni improrogabili è una sensazione che molti di noi, adulti, non provano da anni, o forse non hanno mai provato.

In questo periodo di “vacanza” (periodo di libertà dal lavoro o dagli obblighi scolastici in coincidenza con festività, turni di riposo o altre circostanze – Il Sabatini Coletti, Dizionario della lingua italiana), tra la canonica preparazione di pranzi e cene, mi sono imposta di vivere una giornata assolutamente “vacante”, me la sono ritagliata tra i mille impegni che tutti abbiamo, tra i sensi di colpa di non essere come vorremmo o come gli altri vorrebbero che fossimo (curiose le capriole della lingua italiana…).

Pianificare la giornata senza l’assillo di cose da fare “per forza”, guardarsi intorno e sentirsi strani perché non si ha nulla di serio da fare si tramuta, in breve, in un godimento assimilabile a pochi altri nella vita.

Gustare il sonno e il risveglio senza sveglia, lento, felino…avere il tempo di stiracchiarsi nel caldo del piumone. Chiedersi se sia il caso di alzarsi, ma poi decidere che è ancora presto senza neanche aver guardato l’orologio…girarsi dall’altra parte.

Ciabattare per casa, fare colazione mentre in cucina gli odori del pranzo già si dovrebbero espandere…decidere di non vestirsi e rimanere il pigiama o in tuta fino alla sera. Sprofondare su un divano, piedi in alto a fare zapping tra il niente e il nulla…

Riappropriarsi del tempo, di quel tempo “libero” contrapposto a un tempo talvolta schiavo di regole-convenzioni-orari-coincidenze-ipocrisie.
Riappropriarsi dello spazio, delle stanze di una casa, la propria, attraversata sempre troppo in fretta… “Non ho voglia di fare niente e non faccio niente”: confessarlo non sta bene, non è politically correct in una società in eterno movimento, sempre proiettata verso un “fare” talvolta vacuo e fine a se stesso.

“ (…) Lasciatemi così
 come una
 cosa
 posata
 in un
 angolo
 e dimenticata
 
 Qui
 non si sente
 altro
 che il caldo buono (…)

Mi viene in mente la poesia di Ungaretti , Natale. Provo la stessa sensazione, senza, per fortuna, aver fatto, come lui, una guerra che gli fa apprezzare, per contrasto, il “caldo buono” della sua casa.

Lo sguardo mi cade su uno dei libri ricevuti a Natale e derogo all’inettitudine per alzarmi e prenderlo: “Storia di una lumaca che scopri l’importanza della lentezza” di Luis Sepùlveda. Un’affinità di fondo con la protagonista mi spinge ad aprirlo e cominciare a leggere.

“Le lumache sapevano di essere lente e silenziose, molto lente e molto silenziose, e sapevano anche che quella lentezza e quel silenzio le rendevano vulnerabili, molto più vulnerabili di altri animali capaci di muoversi rapidamente e di lanciare grida d’allarme. Per evitare che la lentezza e il silenzio le impaurissero preferivano non parlarne, e accettavano di essere come erano con lenta e silenziosa rassegnazione.”

Per incanto l’ozio si trasforma in un’altra cosa…Le parole scorrono lente e leggere e mi proiettano in una dimensione altra e lontana, per tempo, luogo, natura. Sotto la frondosa pianta del calicanto le lumache conducono la loro esistenza lenta e silenziosa nel prato chiamato Paese del Dente di Leone. Tra loro si chiamano semplicemente “lumaca”: ma una di loro, in un mondo in cui tutti hanno un nome, trova ingiusto che le lumache non lo abbiano e soprattutto, si rivela curiosa di conoscere le ragioni della loro lentezza. Contro la volontà delle compagne, decide di intraprendere un viaggio nel quale conoscerà un gufo malinconico e una tartaruga saggia. Comprenderà il valore della memoria e del coraggio e si metterà alla testa di un’avventura che porterà le altre lumache verso la libertà, lontano dall’opera distruttrice dell’uomo.

Penso che se non avessi un lavoro, che è più di un lavoro per me, al quale sono grata ogni giorno, non potrei mai godere del tempo “vacante” in cui permettermi il lusso di affondare in una piccola grande storia, un po’ “Piccolo principe” e un po’ “Gabbiano Jonathan Livingstone”, dove domina quella leggerezza e quel coraggio che sono propri degli animali e dei bambini, un richiamo alla riscoperta del senso perduto del tempo.

Se non avessi un lavoro che apprezzo e che mi rende migliore ogni giorno, in cui ricevo più di quanto riesca a dare, un lavoro che mi stupisce e mi attrae ancora, non potrei fermarmi e sentire il sottile piacere delle pause che mi offre.

Infatti domani è il 7 gennaio…

Giusy Gatti Perlangeli