La relazione d’amore procedette a fasi alterne, punteggiata dal fitto carteggio, tra i silenzi di lui, gli allontanamenti, le liti furibonde, le riappacificazioni, l’acuirsi dei disturbi nervosi, le suppliche reciproche per una riconciliazione, gli arresti di Dino che, a causa del suo aspetto (aveva i capelli tra il biondo e il rosso, la pelle rosea, i baffi spioventi su labbra carnose, gli occhi cangianti) veniva continuamente scambiato per un tedesco.
La loro storia finì quando l’ultimo fermo, condusse Dino Campana nel manicomio di San Salvi.
Fu Sibilla a decidere di chiudere la relazione. Lui era sì romantico e fragile, ma spesso anche violento, sconvolto da una gelosia retroattiva per un passato di cui lei, peraltro, non faceva mistero.
Tremendamente instabile (nella stessa giornata scriveva “Cara signora, spero che lei abbia capito che tra noi è finita” e poi, tre ore dopo, “Amore mio, mi manchi, ti prego, vieni da me” e afflitto da manie autodistruttive, diventò per Sibilla, ansiosa di vivere, un ostacolo a cui non volle sottomettersi, per non precipitare anch’ella nella inesorabile discesa del poeta.
Rose calpestava nel suo delirio
E il corpo bianco che amava.
Ad ogni lividura più mi prostravo,
oh singhiozzo, invano, oh creatura!
Rose calpestava, s’abbatteva il pugno,
e folle lo sputo su la fronte che adorava.
Feroce il suo male più di tutto il mio martirio.
Ma, or che son fuggita, ch’io muoia del suo male.
Il “viaggio chiamato amore” terminò per sempre davanti al cancello del manicomio.
Scrisse Sibilla: “L’ho riveduto così, dopo nove mesi, attraverso una doppia grata a maglia. Non ero mai entrata in una prigione. E’ stato un colloquio di mezz’ora, i carcerieri avevan quasi l’aria di patire sentendo lui singhiozzare e vedendo me irrigidita”.
Rispose Dino: “Mi lasci qua nelle mani dei cani senza una parola e sai quanto ti sarei grato. Altre parole non trovo. Non ho più lagrime. Perché togliermi anche l’illusione che una volta tu mi abbia amato è l’ultimo male che mi puoi fare”.
Lei era stata il primo ed unico amore di Dino e anche lei lo aveva amato perdutamente.
Quello che avevano provato l’uno per l’altra era stato così forte, così intenso e profondo che Sibilla non riuscì mai a scrivere più che un solo rigo su quella storia, che, in totale, era durata solo due anni.
Solo a pagina 435 di “Diario di una donna” confessa: “…Forse Dino fu l’uomo che più amai… Tutta la sera m’è ondeggiata alla memoria, l’immagine di lui, della sua pazzia, e di quel altipiano deserto, in quelle prime poche notti estive del nostro amore che son rimaste le più pervase d’infinito ch’io abbia vissuto… “…E amai perdutamente Campana per non lasciarlo solo nella sua follia…” – “Le mie lettere sono fatte per essere bruciate” [pagina 27].
Fortunatamente quelle lettere, la testimonianza della passione che li aveva legati, non furono bruciate mai.
Dino Campana morì, a quarantasette anni, il 1° marzo del 1932 alle undici e tre quarti nell’Ospedale psichiatrico dov’era stato internato 15 anni prima, probabilmente per setticemia causata dal ferimento con un filo spinato durante un tentativo di fuga.
“Alfine mi riconquistavo, alfine accettavo nella mia anima il rude impegno di camminar sola, di lottare sola, di trarre alla luce tutto quanto in me giaceva di forte, d’incontaminato, di bello; alfine arrossivo dei miei inutili rimorsi, della mia lunga sofferenza sterile, dell’abbandono in cui avevo lasciata la mia anima, quasi odiandola. Alfine risentivo il sapore della vita, come a quindici anni” [op.cit.]
Sibilla Aleramo morì a Roma il 13 gennaio del 1960, scrivendo ed intessendo relazioni amorose fino alla fine dei suoi giorni.
(3 – Fine)
Giusy Gatti Perlangeli