Mi è capitato, all’inizio dell’estate, di incontrarmi a cena con una giovane portoghese. Una di quelle cene estive, in cui persone sconosciute si ritrovano a condividere il desco accumunate esclusivamente dal legame con il padrone di casa. Un architetto, in evidente imbarazzo per il suo italiano stentato, trascinata quasi a forza a quell’appuntamento conviviale da un costruttore brianzolo, cui il nostro ospite aveva affittato una villetta sullo splendido mare di Gallipoli.
Scoprire cosa ci facessero nel Salento una portoghese ed un lombardo è divenuto l’obiettivo principale della mia serata, per altri versi resa scomoda dalla decisione di mettermi a dieta proprio con l’arrivo della stagione calda, in cui maggiori sono le tentazioni enogastronomiche. Curiosità divenuta ancora più forte attesa la non particolare avvenenza dell’architetto lusitano e dalla giovane età del costruttore, lontano mille miglia dal clichè del cummenda reso celebre dalle pellicole anni ’60 di Pietro Germi. Ebbene, erano impegnati entrambi in un programma di costruzione di edifici residenziali a Maputo, capitale del Mozambico.
L’architetto si affannava nel cercare di far comprendere agli altri ospiti presenti, in realtà del tutto ignari di dove fosse collocata geograficamente la ex colonia portoghese, che vi sono Paesi dell’Africa in crescita tumultuosa, avendo imparato a valorizzare le risorse naturali di cui spesso sono ricchi. E che l’Africa può rappresentare uno sbocco professionale interessante per i giovani professionisti del Sud dell’Europa, spesso ai margini dei Paesi d’origine, avviluppati in una crisi strisciante che sembra non avere mai fine. Per noi italiani il colore della pelle è spesso sinonimo di immigrati.
Ancora convinti di aver conseguito un rassicurante benessere, facciamo fatica a ricordare di essere stata terra di grandi migrazioni. Si stenta oggi a credere che tra il 1860 ed il 1985 ben 29 milioni di italiani presero la via dell’estero. Le mete preferite erano gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile, il Venezuela e, in Europa, la Francia, il Belgio e la Germania. Ma un milione e ottocentomila di nostri connazionali sbarcarono anche sulle coste del Nord Africa, dividendosi tra Egitto, Algeria, Tunisia, Libia e Marocco. Senza contare quanti si fecero affascinare dal sogno imperiale, avventurandosi in Etiopia ed in Somalia. Se si considera che alle anagrafi comunali risultano iscritti circa settecentomila tra marocchini, tunisini, algerini, libici ed egiziani, il saldo sarebbe ancora positivo!
Certo, il numero totale degli immigrati presenti in Italia è almeno cinque volte tanto, specie se si tiene conto di quanti raggiungono il nostro Paese illegalmente. Ma il dato che più mi intrigava in quella conversazione estiva era il rapporto solido conservato da molti Paesi europei con le lor ex colonie. Difficile immaginare professionisti italiani che vanno a lavorare in Libia, Somalia od Eritrea, Paesi in cui alla caduta di regimi dittatoriali, che spesso hanno goduto del nostro sostegno, hanno fatto seguito sanguinose guerre civili, in cui ogni parvenza di Stato è andata definitivamente distrutta.
Pensavo che il resto dell’Africa fosse off limit per i nostri laureati, fino a quando non ho conosciuto la storia di Francesca Chirone. Un’altra di quelle vicende professionali ed umane che mi affascinano. Una donna brindisina che ha seguito le lezioni di albanese presso l’Università di Lecce; che ha lavorato con Medici Senza Frontiere presso il Centro di Accoglienza di Brindisi; che ha collaborato con la locale Confindustria come responsabile dell’area dei Balcani; che si è successivamente laureata in Scienze Sociali per la Cooperazione Internazionale presso l’Università di Lecce, maturando poi una esperienza come mediatrice culturale in strutture pubbliche e private e che oggi sta seriamente prendendo in considerazione la possibilità di andare ad insegnare la nostra lingua a Dakar, capitale del Senegal, dopo aver collaborato al progetto “Ritorno al futuro”, che mira a dare una possibilità di reinserimento agli immigrati di quel Paese che scelgono di tornare nella terra di origine.
Un’altra di quelle storie che mi piace portare alla ribalta, confidando che una città dotata di un porto molto spesso definito “una piattaforma verso il Mediterraneo”, in cui vi è un tessuto imprenditoriale che dovrebbe finalmente affrancarsi dalla logica dell’appalto conferito dalle industrie chimiche ed energetiche presenti sul territorio, impari finalmente ad utilizzare meglio le risorse non solo naturali di cui dispone.
GIOVANNI ANTONINO