di Giancarlo Sacrestano
Oggi, ricorre il 70° anniversario di Brindisi Capitale di quel che era restato del Regno d’Italia.
Il valore dell’evento, tracima il concetto di anniversario, per assestarsi a pieno diritto nel novero di quei fatti storici che simboleggiano un intero periodo.
Nel percorso di rilettura storica che ho sollecitato nei giorni scorsi, ho sempre precisato che quanto avveniva esatti 70 anni fa, non può essere sottoposto a lettura semplicistica. La situazione del Paese era tragica e divenne drammatica. Le scelte di quei giorni trascorsi in febbrili e concitati incontri, hanno determinato le sorti della intera nazione e con essa, quella di ogni famiglia del Paese.
Una guerra che per tre anni era stata combattuta, senza l’avvedutezza e il controllo della razionalità delle scelte, si trasformava in una tragedia. L’otto settembre del 1943, il D-day di cui nessun italiano era consapevole, fu vissuto nel peggiore dei modi e quel che avvenne nelle ore successive le racconta per intero, la inadeguatezza delle dignità politico-militari e la improvvisazione di scelte frutto esclusivo dello stato di paura.
Brindisi, inconsapevole città della periferia orientale del Paese, offre al re, al governo, alle istituzioni, una parentesi di apparente calma. Qui il re, il governo, i ministri, cercano nei 5 mesi di permanenza di ritrovare un minimo di organizzazione e di funzione alle istituzioni statali, abbandonate frettolosamente nelle ore successive all’annuncio dell’armistizio. Non è sbagliato pertanto affermare che brindisi ha ricoperto la dignità di Capitale d’Italia, seppure in quel tragico momento, la nazione era stata ridotta a brandelli. A Brindisi, il vessillo nazionale non verrà mai ammainato in favore di altre bandiere. Il tricolore, ragione e valore accomunante l’intera nazione, le istituzioni che in esso si riconoscono, qui sono sopravvissute.
L’Italia del 10 settembre 1943 è spezzata in due e non mi riferisco alla simultanea nascita del Regno del Sud con capitale Brindisi e la Repubblica Sociale di Salò al nord. Mi riferisco invece alla divisione netta e tragica tra il popolo e chi lo governava. Gli esempi di eroismo si moltiplicano, ma quel che conta è che si centuplicano le perdite di vite. Nei primissimi giorni successivi all’armistizio, mentre il re si “arrocca” a Brindisi, gli ex alleati tedeschi, disarmano 650mila nostri soldati, deportandoli in campi di prigionia e si impossessano di un’altissima percentuale dei nostri armamenti. Il tragico elenco dei caduti, potrà essere stilato solo tre anni dopo. E sono troppi!
Al fine di definire una ricostruzione storica attendibile di come fu che il re giunse a Brindisi, ho deciso di riportare alcuni stralci di testimonianze tratti da due memorie diverse:
la prima, quella di Sergio Lepre, giornalista che per anni ha diretto l’agenzia di stampa Ansa e che nel 2009 ha realizzato il libro digitale “1943 – cronache di un anno”. Da questo interessante libro, riporto stralci delle 36 ore che hanno preceduto lo sbarco a Brindisi.
La seconda testimonianza è quella di Giorgio Pillon, un giornalista filo monarchico che pubblicò sul periodico “il Candido” nel 1958” un resoconto partigiano, ma ricco di particolari, a cui diede titolo di “I Savoia nella bufera”.
Dal suo lavoro, traggo invece le memorie relative all’arrivo a Brindisi del re e del governo a bordo della corvetta “Baionetta”.
La Fuga precipitosa: destinazione ignota
Da Roma sono partiti alle 4.50 del 9 settembre: una Fiat 2800 col re e la regina, la dama di compagnia della regina, contessa Jaccarino, e l’aiutante di campo del re, colonnello De Buzzecarini; poi un’altra 2800 con Badoglio, il duca Acquarone e il maggiore Valenzano, nipote e segretario particolare di Badoglio; poi una terza auto, un’Alfa Romeo, col principe Umberto, un generale e due ufficiali di ordinanza; poi una quarta auto col cameriere del re, Pierino, la cameriera della regina, Rosa, e un po’ di
bagaglio; poi una quinta e ultima auto, una Fiat 1500, col generale Puntoni, capo della Reale Casa militare, e due attendenti.
Il convoglio percorre la via Tiburtina, quindi la via Valeria e, a 15 chilometri da Pescara, si dirige a Chieti.
Una parte del gruppo si rifugia nel palazzo Mezzanotte e nell’albergo Sole. Il re e i suoi ripartono, su strade
secondarie, per Crecchio.
Perché per Crecchio, che è un piccolo paese nell’interno, di qualche centinaio di abitanti, isolato in cima a un colle? Si va a Crecchio, perché bisogna aspettare che Badoglio decida: partire in aereo dall’aeroporto di Pescara per qualche aeroporto del Sud? ma c’è il rischio che tutti i campi di atterraggio siano occupati dai tedeschi; e poi la regina ha, in aereo, problemi di respiro. Allora, per mare? ma da dove, dal porto di Pescara o da quello di Ortona? In attesa, si va a Crecchio. A Crecchio c’è il castello dei duchi di Bovino, discendenti
dai conti palatini e da Roberto d’Altavilla. (…).
Arrivati a mezzogiorno, partiti alle 16 per andare all’aeroporto di Pescara e tornati alle 18 dopo il cambiamento di programma (non in aereo, ma per mare), i Reali aspettano di sapere che fare da Badoglio che è rimasto all’aeroporto insieme all’ammiraglio De Courten. La duchessa di Bovino avverte: per cena, al
massimo una minestrina calda; poi soltanto qualcosa di freddo. Il cuoco Alfonso dice che la cucina non offre altro.
Verso le 21 il generale Puntoni è chiamato dal principe Umberto, che è, solo, nella camera di Bice. E’ perplesso, racconterà Puntoni: è in piedi, a braccia conserte. “La mia partenza da Roma” gli dice “è uno sbaglio; sarebbe meglio che io tornassi indietro. La presenza nella capitale di un membro della mia casa è indispensabile in un momento così grave”. Puntoni cerca di dissuaderlo; il Sovrano ha espresso il desiderio di avere con sé il principe ereditario: è Umberto che rappresenta la continuità della dinastia. Puntoni non gli ricorda quello che gli ha detto il re al Quirinale, prima di partire, ma Umberto non lo ha dimenticato; glielo ha detto in piemontese: “S’at più at massu”, se ti pigliano, ti ammazzano. E Umberto rimane.
La serata in casa Bovino continua; silenzio, tristezza, disagio. Finalmente, sono le 23, qualcuno avverte il re. Si parte. Per la seconda volta si salutano e si ringraziano i duchi ospitali. “Arrivederci presto” dice il principe Umberto. Le auto si dirigono verso Ortona.
Che è successo, intanto? Nell’aeroporto di Pescara il maresciallo Badoglio e l’ammiraglio De Courten stanno aspettando un segnale. Da Roma, alle 4.30 della notte, prima della partenza col re, l’ammiraglio e il ministro della marina, quando ancora non si sapeva se andare a sud in aereo o per mare, ha ordinato che una nave militare arrivi prima possibile a Pescara; e, per maggior sicurezza, ha dato l’ordine a tre navi: la corvetta Baionetta che era a Pola, la Scimitarra a Brindisi, l’incrociatore leggero Scipione Africano a Taranto. Alle 20 il tenente
Caglianone arriva di corsa in auto da Pescara: è arrivato il Baionetta; è ancorato a un paio di miglia dal molo;
a lumi spenti, ovviamente. L’ammiraglio De Courten parte subito per Pescara, in avanscoperta; mezz’ora dopo anche il maresciallo Badoglio.
A Chieti il generale Ambrosio riunisce alle 18 nell’albergo Sole una specie di consiglio di guerra; c’è il generale Roatta e alcuni generali o alti ufficiali del Comando supremo; otto in tutto; più tardi si unirà agli altri il generale Armellini. A Chieti, però, sono intanto arrivati da Roma un centinaio e forse più di generali e di alti ufficiali; tutto il Comando supremo. Le loro auto di grande cilindrata, una cinquantina, ingorgano il centro della città, anche perché gli autisti vanno in giro a cercare benzina; a Chieti la benzina manca da qualche giorno. L’albergo Sole straripa di gente.
Intorno alle 23 il generale Ambrosio parte per Ortona e tutti dietro, una lunga fila di macchine, quelle che hanno trovato la benzina, con i fari bassi di città, non sulla strada principale che passa da Pescara, ma sulle strade strette e tortuose che per Ripa Teatina e Migliànico portano alla strada litoranea; una trentina di chilometri.
Il re arriva a Ortona un po’ prima di mezzanotte e qui lo attende la sorpresa. Lo racconta il generale Puntoni: “Nonostante si sia cercato di fare tutto nella massima segretezza, le banchine del porto sono piene di macchine. Il Sovrano si innervosisce e mi dice di informarmi che cosa sia accaduto. Si tratta delle vetture che hanno trasportato quassù tutti gli ufficiali dello Stato maggiore. Nulla di ciò era previsto.
Circondato da generali e da ufficiali superiori, vediamo Roatta in borghese con un fucile mitragliatore a spalla. Il Re lo guarda e scuote la testa”.
Oltre alle parecchie decine di generali, ufficiali superiori, attendenti, autisti e carabinieri c’è, nel recinto del porto, anche molta gente del posto: portuali, pescatori, donne e ragazzi, alcune centinaia. Li muove la curiosità; mai visti a Ortona tanti personaggi importanti, perfino il re e la regina. Ma qualcuno ha paura che una così illustre presenza faccia arrivare i tedeschi, da terra o dall’aria. Mezz’ora prima sono suonate le sirene dell’allarme aereo e nessuno sa che era un allarme finto, fatto per tenere la gente in casa e liberare le strade. Più passa il tempo e più si sente un certo rumoreggiare della folla. A mezzanotte e venti la capitaneria avverte che una nave – è il Baionetta – è al largo di Ortona. Non si vede, perché è a lumi spenti. Allora ci si imbarca? Due motopescherecci, il Littorio e la Nicolina, sono stati affittati (ma poi nessuno li pagherà) e sono pronti per il trasbordo. Il re dice però di aspettare; manca Badoglio, il capo del governo. “E’ mezzanotte e mezzo” scrive il generale Puntoni “e il maresciallo non si vede. Il Sovrano decide allora di imbarcarsi lo stesso, con la Regina, il Principe, con il seguito e le più alte personalità presenti. Quando arriviamo sulla corvetta, troviamo ad aspettarci Badoglio e De Courten, che, all’insaputa di tutti, si erano imbarcati a Pescara fin dal pomeriggio”. Non è proprio esatto; si erano imbarcati non nel pomeriggio, ma la sera, intorno alle nove.
Più che di un trasbordo – diranno poi i due capibarca, Vincenzo Diomedi e Sebastiano Fonzi – si tratta di un arrembaggio, reso più drammatico dal buio della notte, mentre qua e là si agitano le piccole luci di lampadine tascabili. Tutti vogliono salire a bordo del Baionetta, ma sono troppi, anche se si lascia a terra il personale di servizio. Il comandante del Baionetta è inflessibile: chi volete voi, ma non più delle ciambelle di salvataggio disponibili, cinquantasette. “Prima i generali” grida l’ammiraglio De Courten.
Fatti i conti, il comandante Pedemonti fa togliere il barcarizzo e buonanotte a tutti. Parecchi generali rimangono sui due motopescherecci, il Littorio e la Nicolina; strepitano, implorano, ma alla fine sono costretti a tornare indietro. Tanti di più sono ancora, in agitazione, sulle banchine del porto. Poi, uno dopo
l’altro, in silenzio, salgono sulle loro macchine e scompaiono. Per terra rimangono valige, borse e grosse scatole piene di carte.
Finalmente, all’una e dieci, il Baionetta leva le ancore e si dirige a sud, verso Bari. Ma a Bari c’è il rischio che ci siano i tedeschi. Si prosegue verso Brindisi.
Alle 5 del mattino si avvicina al Baionetta, velocissimo, l’incrociatore leggero Scipione Africano.
L’incrociatore, entrato in servizio proprio quest’anno, più di cinquemila tonnellate di stazza, capace di
raggiungere i quaranta nodi di velocità, è partito da Taranto alle 10.45 di ieri ed è arrivato a Pescara pochi minuti dopo la mezzanotte. Qui non ha trovato nessuno; gli “alti personaggi” di cui avevano parlato al comandante della nave, stavano imbarcandosi a Ortona sul Baionetta.
Raggiunto il Baionetta, lo Scipione, più potente, diventa la nave di scorta. A bordo c’è un giovane guardiamarina, il ventunenne Franco Aliverti. E’ lui che racconta: “La navigazione continuava tranquilla ed i servizi di bordo funzionavano a meraviglia. Avvistammo parecchie imbarcazioni, di dimensioni varie, cariche fino all’inverosimile di militari provenienti dalla costa dalmata, che cercavano di raggiungere la costa italiana. Al nostro avvicinarsi sventolavano la bandiera nazionale. Verso le 16 venimmo sorvolati da un bombardiere tedesco che fece un giro su di noi: lo seguivamo con tutte le armi puntate, così che pensò bene di andarsene. Risalimmo l’Adriatico fino all’altezza di Pescara, dove arrivammo a mezzanotte; dopo un rapido scambio di segnali a lampi di luce con la Stazione-segnali del porto invertimmo la rotta verso sud fino all’altezza di Ortona: altro scambio di segnali con la locale Stazione e poi di nuovo in rotta verso sud.
“Verso le 5 del 10 settembre avvistammo di prora una corvetta che riconoscemmo per il Baionetta. La superammo rendendo gli onori regolamentari all’insegna di comando che aveva a riva e vedemmo, allibiti e costernati, l’immagine della disfatta.
Nel ridotto spazio poppiero della piccola nave, ingombro di attrezzature e delle grosse tramogge scaricabombe di profondità, erano seduti, su semplici poltroncine in legno e tela, S.M. il Re, il maresciallo Badoglio, l’ammiraglio De Courten ed altri personaggi di altissimo rango. Nella luce livida dell’alba la scena sembrava materializzare la catastrofe: un vero crepuscolo degli Dei.
“Lo Scipione prese posizione di prora, ridusse la velocità fino a quella della corvetta e con tale linea di fila continuammo la navigazione verso sud. Nel primo pomeriggio ci fu uno scambio di segnali tra lo Scipione ed il Baionetta. La stazione radio della Marina di Roma, ancora funzionante, aveva trasmesso un messaggio con il quale il maresciallo d’Italia Caviglia chiedeva al Re una delega per agire come massima autorità militare per la città di Roma; delega che fu subito concessa con altro messaggio”.
“La corvetta Baionetta entra nel porto di Brindisi alle quattro del pomeriggio. A bordo c’è il re Vittorio Emanuele e con lui la regina Elena e il principe Umberto. C’è anche il capo del governo, il maresciallo Badoglio, e poi altre 53 persone: qualcuno appartiene al personale di servizio del Quirinale, gli altri sono quasi tutti generali dello Stato maggiore, che a Ortona sono riusciti a imbarcarsi, a spinte e a gomitate.
Tre quarti d’ora prima, la corvetta si è fermata al largo. E’ una piccola nave da guerra di 728 tonnellate,
varata nel 1942 e entrata in servizio a fine luglio, con compiti antisommegibile. Il comandante, il tenente di
vascello Piero Pedemonti, chiama per radio il comandante della piazza militare della marina a Brindisi,
l’ammiraglio Luigi Rubartelli, e gli chiede se ci sono tedeschi. I tedeschi non ci sono; se ne sono andati via da qualche giorno.
La nave si avvicina e attracca un po’ prima del canale Pigonati che collega il porto esterno al porto interno, a qualche centinaio di metri dal monumento al marinaio d’Italia. Due motoscafi portano gli insoliti passeggeri alla Capitaneria di porto sul lungomare che si chiama regina Margherita, vicino alla colonna romana che è considerata il termine dell’antica via Appia. Qui scendono tra una folla incuriosita e si dividono: il re, la regina e il principe Umberto vengono accompagnati dall’imbarazzatissimo ammiraglio Rubartelli nei locali dell’ammiragliato, al primo piano del castello svevo, sùbito sopra il porto; ancora più imbarazzata è la signora Rubartelli, che, svegliata dal suo sonnellino pomeridiano, accoglie in vestaglia gli
augusti ospiti.
Badoglio e Acquarone si sistemano invece nella casermetta dove trova alloggio il personale dei sommergibili. De Courten preferisce rimanere a bordo del Baionetta. Tutti gli altri all’albergo Internazionale
sul lungomare. In serata vengono aperti i magazzini della marina militare e alcuni negozi; quasi tutti hanno bisogno di vestiario per la notte e di spazzolini da denti.
Sono in viaggio da un giorno e mezzo. Soltanto l’11 settembre il re cercherà di togliersi un peso dallo stomaco: spiegare agli italiani perché è scappato da Roma. Così firmerà un proclama, che radio Bari trasmetterà e la Gazzetta del Mezzogiorno di Bari pubblicherà. Non saranno molti ad ascoltarlo (radio Bari ha una potenza di 20 kw) o a leggerlo: “Italiani, per la salvezza della capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di re, col governo e con le autorità militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale. Italiani! Faccio sicuro affidamento su di voi per ogni evento, come voi potete contare, fino all’estremo sacrificio, sul vostro re”.
Comincia così il cosiddetto Regno del Sud con Brindisi capitale; territorio: le province di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto.
(Più tardi sarà pubblicato il racconto dello sbarco del re a Brindisi”)
Nelle foto in basso, l’arrivo del re a Brindisi e la corvetta Baionetta