E’ stata molestata sessualmente, picchiata, minacciata e stalkerizzata per un anno e mezzo da un paziente ricoverato presso la Comunità riabilitativa di Latiano nella quale lavorava come educatrice: quando alla fine ha trovato la forza di denunciarlo, lui è stato trasferito agli arresti in un’altra «Crap» del paese ma poi non è stato ritenuto capace di intendere e di volere, pur essendo stato riconosciuto pericoloso socialmente, e quindi non ha subìto alcuna condanna, in quanto non giudicabile penalmente. Su di lei, che ha 32 anni, dopo la denuncia, è caduta una cortina di ghiaccio nella struttura in cui operava al punto da convincerla a licenziarsi, abbandonando un’occupazione a tempo indeterminato. Da quel giorno di due anni fa non ha mai più trovato lavoro. Non solo: il suo persecutore vive in una Comunità vicinissima a casa sua. Per lei, l’incubo continua.
L’abbiamo incontrata nello studio latianese del suo avvocato Antonio Sartorio, del Foro di Roma.
Lei ha lavorato per cinque anni in quella Comunità riabilitativa, ma l’ultimo anno e mezzo sembra essere stato un inferno.
«La mia vita è cambiata totalmente. Amavo quel lavoro, sono una educatrice psichiatrica professionale, seguivo con impegno e passione i circa dieci pazienti assistiti nella struttura. Poi è arrivata questa persona, che all’epoca aveva 30 anni. Da subito ha cominciato ad avere un forte «interesse» nei mie confronti, un atteggiamento ossessivo con apprezzamenti fisici che poi si sono trasformati presto in avances sessuali, molestie, minacce e aggressioni. Ha iniziato a importunarmi, non solo sul posto di lavoro, ma anche fuori”.
Perché comunque lui aveva la possibilità di uscire?
“Sì, poteva uscire da solo, senza l’accompagnamento degli operatori. Così me lo ritrovavo al bar, piuttosto che sotto casa, pretendeva di sapere cosa stessi facendo, con chi mi trovassi. Quando ero di turno, spesso mi ha chiesto se potevamo vederci fuori dalla struttura per prendere un caffè, per conoscere i miei amici. Io gli ho spiegato più volte che questo non poteva accadere perché io ero l’operatrice e lui il paziente. Lui non accettava questo: diceva che non si riconosceva nella figura del malato ma in quella degli operatori. Spesso manifestava questo malessere: diceva io non sono come gli altri, non capisco perché sono qui. Io non sono stupido come loro. E questo non andava bene neanche per gli altri pazienti perché stavano male e soffrivano per questa cosa. Lui essendo quello più forte, sia fisicamente che psicologicamente, avendo un ritardo mentale medio con forti turbe comportamentali, sottometteva gli altri pazienti, soprattutto quelli più vicini a me, quando si accorgeva che dedicavo loro qualche attenzione o una carezza in più. Si ingelosiva e si rifaceva con loro, sperando che questo avrebbe provocato una mia reazione».
A un certo punto ha iniziato anche a metterle le mani addosso.
«Sì, ha cominciato a seguirmi: quando mi cambiavo per indossare la divisa veniva a spiare. Mi pedinava nella struttura, se mi allontanavo per fare laboratorio me lo ritrovavo addosso. Approfittava di ogni momento in cui sapeva di trovarmi da sola per importunarmi e potermi molestare fisicamente. Palpeggiamenti, apprezzamenti spinti».
Come mai non ha preso subito provvedimenti?
«All’inizio sono arrivata a pensare che potessi essere io la causa di tutto quello che mi stava succedendo, magari che avessi sbagliato, un sorriso di troppo, una frase interpretata male. E ho iniziato ad annullarmi come donna: non mi truccavo più, lui faceva apprezzamenti sui miei capelli e io arrivo in comunità con i capelli legati, li avevo lunghi e li ho tagliati, diceva che gli piaceva il mio odore e io ho cominciato a non mettere più neanche il deodorante. Per un anno e mezzo ho patito tutto questo. Inizialmente in silenzio, almeno nella mia vita privata: a casa non raccontavo quello che mi succedeva, ma ho subito manifestato all’amministrazione della struttura ciò che mi stava accadendo».
E la risposta dei titolari? L’hanno supportata?
“No, perché quando la vicenda si è fatta più seria, quando le percosse sono state gravi tanto da costringermi alle cure in ospedale, l’amministrazione mi ha proposto di trasferirmi. Non spostavano lui, ma me. Io avrei dovuto lasciare il mio contratto a tempo indeterminato in quel centro per accettarne un altro di tre mesi presso un’altra struttura collegata. Io non ho accettato, ovviamente, perché la consideravo un’ingiustizia perché rivendicavo il fatto di non essere io la causa, io ero la vittima. E ho deciso di rimanere, di tenere duro: ma le cose sono peggiorate ulteriormente: il paziente era sempre più ingestibile».
Possiamo dire che ormai era uno stalker all’interno della struttura in cui lavorava?
«Sì, ma non solo all’interno della struttura. Io me lo ritrovavo fuori: ha rigato la mia auto, inseguiva me, la mia famiglia. Lui era capacissimo di aprire la porta quando aveva le crisi e usciva mancando per ore. Cercandomi, pedinandomi. Spesso quando arrivavo mi diceva esattamente dove ero stata quel giorno e con chi mi ero incontrata. Voleva che mi sentissi completamente sotto il suo controllo. Nel frattempo aumentavano anche le aggressioni e la violenza. La prima volta sono finita in ospedale con una contusione al braccio sinistro: mi ha strattonata, mi ha spinta contro un muro e mi ha tirato un calcio al braccio. Poi ci sono state altre percosse».
Lei in questo periodo sperava che qualcosa potesse cambiare, ma c’è stato un episodio che l’ha convinta che questa situazione non fosse più tollerabile?
«Un giorno mi ha morso una mano e mi stava quasi per staccare un pollice: ho dovuto portare il gesso e il tutore, con il rischio di una lesione ai tendini. Lì ho deciso che dovevo prendere dei provvedimenti perché era un anno e mezzo che subivo tutto questo, anche perché nel frattempo mi ero rivolta a uno psicoterapeuta, avevo iniziato ad assumere dei farmaci. Non riuscivo più a gestire questa situazione. Tornavo a casa dal lavoro e mi trasformavo io in paziente, ero arrivata a pesare 42 chili, rifiutavo il cibo, soffrivo continuamente di attacchi di panico e di ansia. Non avevo più una vita sociale, avevo annullato completamente la mia persona. Non esistevo più: rimaneva solo la professionista che comunque si metteva ormai sempre più in discussione perché stavo male, davo la colpa a me di tutto quello che mi stava succedendo, anche se così non era. Ma ne ho acquisito solo dopo la piena consapevolezza».
Ha trovato almeno l’aiuto dei colleghi o anche loro hanno preso le distanze?
«Per fortuna sì. Alcune colleghe mi hanno supportava e mi hanno detto: noi ti saremo vicine, qualunque cosa tu decida di fare. Ed è stato così. E poi ho avuto soprattutto l’aiuto decisivo dei carabinieri della stazione di Latiano, mi hanno ascoltata, mi hanno consigliata. Il maresciallo Luigi D’Oria mi è stato molto vicino. Facevano le ronde, passavano sotto la struttura, mi chiedevano come stesse andando. Ma lui un pomeriggio, rientrando, aveva bevuto, ha cominciato a molestarmi, a insultarmi, a minacciarmi, poi mi ha messo le mani al collo. E a quel punto le mie colleghe hanno preso il telefono e hanno chiamato i carabinieri che comunque si trovavano lì vicino e sono intervenuti. E’ stato arrestato e posto ai domiciliari in un’altra struttura di Latiano».
Doveva essere la fine dell’incubo.
«E invece già da quella sera è iniziato il declino del mio rapporto di lavoro. Sembrava che si fosse rotto qualcosa. Da quel momento è calato il silenzio tra me e l’amministrazione della struttura. Non c’era più dialogo, i rapporti erano molto tesi. Mi facevano sentire inadeguata, erano state messe in discussione la mia figura e la mia professionalità. Erano arrivati a incolparmi di quello che era successo. Ormai vivevo malissimo tutto. Un giorno ho deciso di riprendere in mano la mia vita, stavo male, mi sono presa un periodo di pausa e messa in malattia, perché non riuscivo più a respirare là dentro».
Paradossalmente da vittima è stata considerata quasi come un carnefice.
«Sì, esattamente. Così ho lasciato il lavoro a malincuore perché comunque avevo progettato la mia vita attorno alla mia professione, a quel contratto a tempo indeterminato. Avevo deciso di rimanere qui proprio per questo, perché io amavo il mio lavoro, i miei pazienti, avevo un bellissimo rapporto con le colleghe».
E invece si è dimessa. Questo è successo due anni fa Nel frattempo si è chiuso il processo al suo stalker senza nessuna condanna. Lei adesso lavora?
«No, purtroppo no. Non sono mai più stata assunta da nessuna parte»
Siamo a Latiano, qui ci sono oltre 40 strutture simili a quella in cui lavorava e in gran parte delle quali lei avrebbe titolo per operare. Pensa che sia una coincidenza il fatto che lei non abbia più trovato alcuno spazio?
«Non so se è un caso, oppure se sia collegato a quello che è avvenuto. Però è molto strano. Può essere che la mia scelta di denunciare mi faccia considerare non affidabile».
Potendo tornare indietro, lei denuncerebbe ancora quella persona?
«Sa cosa le dico? Oggi forse no, perché comunque non sono stata tutelata, non sono stata compresa. Ho perso troppo, ho perso tutto. Per noi donne è così».
E’ un messaggio di sconfitta il suo.
“Sì, è vero. Le sto raccontando questa storia perché forse è l’ultimo grido che voglio lanciare per dire fate attenzione, monitorate, fatte i controlli, ascoltate le donne quando denunciano. Non è colpa nostra quando avvengono queste cose. Ma mi rendo conto, perché l’ho vissuta sulla mia pelle, che purtroppo c’è troppa omertà, si chiudono gli occhi, si lascia passare tutto con troppa facilità”.
Questa persona è ancora a Latiano, non è mai stata trasferita altrove per tutelare almeno la sua tranquillità e la sua sicurezza. Lei la incontra?
“Sì, non solo è ancora in circolazione ma si trova in una comunità a soli 100 metri da casa mia. Quindi io adesso evito di percorrere determinate strade perché ho paura di incontrarlo, è già successo che io passeggiavo e lui era in giro con altri operatori che ovviamente non sanno chi sono io e quando lui si è staccato dal gruppo per venirmi incontro loro non capivano e io mi sono dovuta rifugiare in una farmacia lì vicino. Quindi da allora faccio attenzione all’orario in cui esco, dove vado e quali strade percorro. Insomma, quasi nulla è cambiato».
Lei ha perso il lavoro ma lo stalking continua.
«Sì e gli arresti domiciliari ci sono io».