Assolto il conducente. «Nostra figlia Giorgia morta un’altra volta»

di GIANMARCO DI NAPOLI  per il7 Magazine

Il fatto non sussiste, il fatto non sussiste. Giorgia Zuccaro dunque non è stata uccisa, non era in un’auto condotta da un ragazzo con patente sospesa, con un tasso alcolico nel sangue al di sopra del consentito e che aveva fatto uso di sostanza stupefacente. Giorgia è come se fosse morta da sola, non in quella vettura accartocciata contro un muretto di via Cappuccini. Boom, un caso fortuito, un capriccio del destino. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Lecce, ribaltando la sentenza dei giudici di Brindisi che avevano condannato il ragazzo a quattro anni e tre mesi per omicidio colposo. Assolto, perché il fatto non sussiste. Il fatto non sussiste.
“L’hanno ammazzata un’altra volta”. Anna Donateo è la mamma di Giorgia. La casa non è un museo di foto, come spesso capita quando muore un figlio e di lui parlano i muri, le cornici d’argento nelle librerie, le immaginette raccolte sui tavolini. Qui sembra che Giorgia debba comparire da un momento all’altro dalla porta d’ingresso, ciao ma’ che si mangia oggi? Le sue istantanee sono su una mensoletta, accanto a quelle della sorella Alessandra, così simili tra loro che non le distingui. Neonate, bambine, adolescenti e poi donne. Un’apparente normalità, una casa qualunque.
Anna e Franco, il papà di Giorgia, sono una accanto all’altro, sul divano. “Ieri non ci siamo parlati per dodici ore. Non riuscivamo a trovare neanche le parole, non sapevamo cosa dirci”, è lei che parla. “E’ stato come perderla una seconda volta”.
L’hanno saputo da un’amica di famiglia. Una telefonata: “Lo hanno assolto”. Il fatto non sussiste. Lo dicono i giornali.

Anna ha scritto una lettera piena di dolore e l’ha inviata ai giornali on line che hanno diffuso la notizia: “Il fatto non sussiste. Ed allora se così è, oggi per me che ho messo al mondo Giorgia, che ho amato e continuo ad amare più della mia vita, dovrebbe essere un giorno felice: posso finalmente smettere di credere che Giorgia non ci sia più; posso pensare che un destino infame e maledetto non le abbia fatto incontrare il suo assassino che, come appurato, ubriaco, sotto effetto di stupefacenti e senza patente (sospesa in precedenza a causa di altri misfatti), ha causato quell’incidente mortale. Posso finalmente farmi scaldare dal calore del sole e spettinare dal vento senza pensare che tutto questo sia inesorabilmente negato a mia figlia; posso sentire lo squillo del telefono con la voce di Giorgia che mi dice: mamma che c’è di buono da mangiare, sto tornando a casa! Invece, no, non posso! Chi ha ucciso mia figlia ha avuto “l’assoluzione”, mentre la nostra con l’assenza di Giorgia, è stata condannata all’ergastolo del dolore. Mai più sentiremo la sua voce, mai più ci stringeremo nei suoi abbracci, mai più prenderò il suo viso fra le mani per riempirlo di baci. Nessuno cercava vendetta, non ci appartiene, ma giustizia sì! Avevamo fiducia nella “Giustizia”, quella che dà a chi trasgredisce la giusta condanna”.

Ritorniamo a quella sera, il 5 giugno del 2011. Il maledetto destino. “Le avevano chiesto di fare la promoter al Negroamaro Whine Festival ma lei ci teneva ad andare a quella festa e ha rifiutato. Era per il battesimo della nipote di lui”, ricorda Anna. Né lei né il marito, durante la nostra conversazione, pronunceranno mai il nome del ragazzo che guidava. Mai. E non lo faremo neanche noi.
“Mi ha chiamata di notte. Piangeva. Mi ha detto, mamma voglio tornare. Mi ha raccontato che lui le aveva dato uno schiaffo”. E poi una frase di quelle che si dicono senza pensarci troppo: “Ma’, voglio morire”. “Singhiozzava, me lo ha ripetuto un paio di volte tant’è che mi sono agitata. Volevo andarla a prendere, ma lei quando si è resa conto che mi stavo preoccupando ha cambiato tono. Ha tentato di tranquillizzarmi. Mi ha salutato. Io dopo l’ho richiamata, ma non mi ha risposto”.
Poco più di un’ora dopo hanno suonato alla porta di casa, era un’amica di Giorgia. “Un incidente, sta in ospedale”. La corsa con l’auto, il pronto soccorso a perdifiato e poi su per le scale: “Non puoi pensare al peggio ti illudi. Anzi entrai urlando: le spezzo le gambe se sale un’altra volta in macchina con quello. E poi l’ho vista passare sulla barella, sembrava dormisse. L’ho chiamata, Giorgia, Giorgia, lei però aveva gli occhi chiusi. L’ho rincorsa sino a quando non è sparita nel reparto di Rianimazione. Un’ora dopo ce l’hanno detto che non c’era più”.

Il maledetto destino. La vita di Giorgia si è interrotta nell’auto accartocciata contro un muretto di via Cappuccini. Proprio sotto il balcone della casa in cui aveva trascorso il periodo più spensierato della sua vita, da bambina. Poi la famiglia si era trasferita in un appartamento 500 metri più lontano. Là avrebbe voluto rifugiarsi quella notte, con mamma, papà e Alessandra, ma non ci è mai arrivata. Aveva 29 anni. Il suo ragazzo – che guidava nonostante gli avessero ritirato la patente dopo un altro incidente avvenuto poco tempo prima – venne ricoverato in ospedale. Aveva assunto droga e bevuto oltre i limiti consentiti, appurarono subito le verifiche effettuate dai sanitari.
I genitori di Giorgia iniziarono una battaglia su due fronti: da un lato quella per ottenere giustizia per la figlia, dall’altro per affiancare l’associazione “Vittime della strada” impegnata supportare il riconoscimento del reato di omicidio stradale. Il volto e la storia della ragazza brindisina vennero stampati insieme a quelli di altre decine di ragazzi uccisi sulla strada per l’imprudenza (spesso aggravata dall’uso di droghe e dall’abuso di alcol), in un volume che raccoglie 50mila firme a supporto della proposta di legge. Quella sull’omicidio stradale – che prevede inasprimento della pena per chi se ne rende responsabile – è stata firmata dal presidente della Repubblica solo il 23 marzo 2016. Non essendo retroattiva, non poteva essere applicata al caso di Giorgia ma la vicenda giudiziaria aveva ottenuto l’esito auspicato per la sua famiglia: il 16 ottobre 2014 il giudice monocratico del Tribunale di Brindisi aveva riconosciuto il conducente colpevole di omicidio colposo e lo aveva condannato a quattro anni e tre mesi di reclusione. La parte civile aveva successivamente ottenuto il risarcimento del danno e dunque non aveva potuto costituirsi nel giudizio di secondo grado.

Qui, inaspettatamente, la sentenza è stata ribaltata. Non c’è stato un ridimensionamento della pena ma l’annullamento completo della decisione del giudice di Brindisi: assolto perché il fatto non sussiste. Come se l’imputato all’improvviso non risultasse più essere stato alla guida di quell’auto. Ma per capire esattamente le motivazioni della sentenza sarà necessario attenderne il deposito che avverrà entro un paio di settimane.
Siamo nel limbo delle domande su ciò che appare inspiegabile e che riapre una ferita devastante: nel salotto di una casa dalla quale Giorgia manca solo fisicamente, ma la cui presenza si percepisce continuamente, ovunque. “Per me è come se fosse partita per l’America. Era il suo sogno. E allora la immagino con la valigia e che un giorno possa tornare”, racconta la mamma. Su un ripiano c’è una tavola di legno con pietre a forma di cuore, di varie tinte e dimensioni. “Vedo cuori ovunque, è come se Giorgia me li facesse trovare lungo il cammino”.

Ognuno in famiglia ha scelto il suo modo di rielaborare quel dolore che ogni giorno aumenta invece di stabilizzarsi. Anna continua a insegnare in una scuola d’infanzia: “Negli occhi di quei bambini spesso incrocio lo sguardo di mia figlia. Sono loro che mi danno l’energia e la forza di andare avanti. Ma ovviamente c’è Alessandra: lei ha una corazza di ferro, non siamo mai riuscite a piangere insieme”. Alessandra studia al Conservatorio e canta con il nome d’arte di “Alea”. Proprio in questi giorni sta presentando il suo secondo album ma è nella traccia numero 6 del primo che racconta tutta la sua sofferenza. Il brano si chiama “Non c’è pace”. Poi c’è Franco, il papà. Lui, proprietario di una storica gioielleria in viale San Giovanni Bosco, ha chiuso da tempo. E ha lasciato il palcoscenico sul quale era stato protagonista di decine di commedie in vernacolo. Giorgia recitava con lui ed era anche brava. Quando ne ha voglia, con l’amico fraterno Salvatore Cocciolo, indossa i panni di clown del duo satirico Tindilo. Un clown triste. E stasera accecato dalla rabbia. E’ inutile riportare ciò che ci dice tra la disperazione e lo sgomento: sarebbero le parole di qualsiasi padre, di ognuno di noi. Immaginatele, ma in silenzio.

Le videocassette e i dvd che raccontano l’infanzia di Giorgia, le canzoni e le sue performance teatrali sono allineati nel mobiletto a vetri sotto il televisore. “Ma in sette anni non ho avuto il coraggio di guardare nulla”, confessa la madre. “Lo so, avrei possibilità di rivederla, di risentire la sua voce che è rimasta prigioniera di quell’ultima telefonata. Ma non mi sento pronta a farlo. Per il momento è dentro di me, in modo così doloroso che non farei altro che piangere. Fa ancora troppo male. E oggi ancora molto di più”. Ma il fatto non sussiste.