Bosco dei Lucci, la magia delle querce da sughero

Per i brindisini è uno dei tanti boschi, di cui pochi ricordano i nomi, residuo della grande foresta di decine e decine di migliaia di ettari che in tempi antichi ricopriva di verde una terra baciata dal sole, accarezzata dal mare e forgiata dal vento su cui scorrevano decine di fiumiciattoli che la “civiltà” ha ridotto a canali e l’inciviltà ha trasformato in ricettacoli di rifiuti.
Per i mesagnesi, anche se il suo perimetro è interamente in agro di Brindisi, è il loro bosco.
Si tratta del Bosco dei Lucci, che in anni passati fu anche teatro di un efferato fatto di sangue ordito dalla malavita organizzata che sconvolse l’intera comunità: l’uccisione di una giovane madre, Marcella di Levrano, massacrata e resa quasi irriconoscibile a colpi di pietra ed abbandonata nel bosco dove fu rivenuta solamente dopo alcuni giorni. Delitto, a distanza di quasi trent’anni, rimasto tuttora impunito.
Ma torniamo alle cose belle e questo bosco, come anche la omonima masseria, non solo ha tanta bellezza da offrire ma, come vedremo, anche tanta storia e molto interesse naturalistico, sia per ciò che attiene la fauna selvatica che lo abita, che riguardo l’aspetto più prettamente botanico.
Il bosco è quello che, in gergo, si definisce “sughereta”, per la assoluta predominanza, fra i suoi alberi, della Quercia da sughero o, scientificamente, Quercus suber, dalla parola latina “suberem” che letteralmente, significa “pelle rugosa”.
Se a noi può sembrare assolutamente normale avere delle sugherete, e tali sono anche il Bosco di Santa Teresa e quello dei Preti, situati poco distanti tra loro, sempre fra Mesagne, Brindisi e Tuturano e costituenti fino a pochi secoli addietro un unico grande bosco di Querce da sughero, non è così per gli esperti ed i botanici dal momento che l’areale di distribuzione di questa pianta, originaria dell’Africa nord occidentale e diffusa ai tempi dei romani anche in Spagna, Francia meridionale e fascia tirrenica dell’Italia, oltre che nelle isole maggiori, costituisce assolutamente un “unicum” sulla fascia adriatica e le sugherete brindisine sono quelle poste più ad oriente e, per di più, piantate e proliferanti su terreni su cui, in linea teorica, non potrebbero nemmeno sopravvivere ed in una condizione climatica, tendente alla siccità, che è esattamente il contrario di ciò di cui questo albero ha bisogno.
Evidentemente è accaduto che gli antichi romani, che erano davvero dei gran testoni e non si rassegnavano facilmente agli insuccessi, avevano gran bisogno di sughero, materiale resistente, leggero, impermeabile, ignifugo e galleggiante, sia per i loro cantieri navali, che per farne galleggianti da pesca, comode suole per i loro calzari, rivestimenti per pareti e mobilia, giacchè non potevano lasciare che, quello che era il porto più importante dell’impero ed una delle città più floride e popolose dell’epoca, non potesse approvvigionarsi in loco di questa formidabile materia prima la quale, non essendoci all’epoca prodotti sintetici e/o plastici, era davvero insostituibile.
La genialità del popolo romano sta nell’aver capito che piantando all’interno di quella che era l’antica foresta, a ridosso di piccoli corsi d’acqua e campi che, stagionalmente, si allagavano naturalmente con un certo ristagno d’acqua, questa pianta poteva non solo sopravvivere, ma anche svilupparsi in maniera sontuosa.
Negli ultimi secoli il sughero è stato utilizzato in special modo per la produzione, a livello industriale, di tappi.
Come curiosità va detto che, fra i cosiddetti “rimedi della nonna” l’infuso di foglie di sughero è utilizzato come antidiarroico, il caffè di ghiande tostate ha anche un notevole effetto astringente, mentre, come uso esterno, gli impacchi e le frizioni con il macerato di foglie sono ritenute utili contro le emorroidi. Il che mi fa sorridere pensando alla saggezza degli antichi erboristi e, per contro, al volgare invito, spesso rivolto scherzosamente fra amici, a mettersi un tappo (di sughero ovviamente) nel di dietro, quando si è sopraffati dalla dissenteria!
Ovviamente, a differenza degli ulivi, degli alberi piantati originariamente dai romani in epoca sia repubblicana che imperiale, non rimane alcuna traccia, essendo una pianta che, al più, può raggiungere i 300 o 400 anni di età, ma nel bosco dei Lucci c’è sicuramente più di qualche esemplare che il traguardo dei due o anche tre secoli, lo ha raggiunto e superato.
Anche la Masseria, proprietà della famiglia Bracchetti-Adorni, con Carlo Brachetti che ci fa da entusiasta cicerone, risale a qualche secolo addietro e vi è traccia della sua esistenza già nel XVII secolo, ma, come ci spiega il padrone di casa, insistevano su questo sito due antiche fattorie romane, una di età repubblicana ed una di età imperiale. Ci mostra, con orgoglio, l’antica pavimentazione di chiara origine romana di alcune parti della strada poderale ed anche del cortile interno e di una rimessa della masseria. Fino a poche decine di anni addietro – ci racconta Bracchetti – questa zona era battuta costantemente dai tombaroli che hanno fatto incetta di tutto quanto di prezioso o anche solamente antico, fosse rinvenuto, utilizzando in tempi relativamente recenti, anche i metal detector, scavando e distruggendo ovunque avessero sentito il fatidico “beep”
Da anni i proprietari stanno cercando di recuperare l’antica masseria e c’è da giurarci che ci riusciranno, con impegno e dedizione, nonostante la stessa sia oggetto di vere e proprie predazioni da parte di vandali ed utilizzata a lungo anche quale cava per approvvigionarsi di materiali edilizi.
La visita continua passando davanti alla grande colombaia che, altissima, si trova incastonata nel muro di cinta del giardino. Giungiamo dunque davanti alla masseria, dove i segni di grandezza di un tempo sono quasi offuscati da alcune pareti e soffitti delle volte crollati ad opera dei vandali; mentre saliamo sul tetto dell’edificio per guardare il panorama dall’alto, diamo fastidio involontariamente ad un grosso Barbagianni che pigramente prende il volo in direzione del bosco, nonostante il tramonto sia ancora lontano dal venire e chissà che non si tratti di uno dei due barbagianni liberati ai margini del bosco una paio di mesi addietro, dopo essere stati accuditi e curati presso il Centro Fauna Selvatica della Provincia di Brindisi, dalla nostra amica biologa Paola Pino d’Astore.
Dall’alto è più facile comprendere la forma del bosco, si intravede la Città di Mesagne con la cupola della chiesa di Mater Domini, ma una chiesetta fa parte anche del podere e – ci dice Carlo – fino ad una trentina di anni addietro era quasi integra, ma poi, ricadendo in parte su altra proprietà, fu tagliata dalla costruzione di un muretto divisorio ed è parzialmente crollata.
Dal momento che le costruzioni attuali risalgono con ogni probabilità al 1600 o giù di lì, il fatto che si sia trovata documentazione scritta riguardo l’esistenza di un antico casale già nel Medio Evo, avvalora la tesi sostenuta dal Bracchetti che si trattava proprio di una fattoria romana o villa rustica che dir si voglia.
Va detto, a questo proposito, che reperti risalenti al periodo fra il II ed il IV secolo dopo Cristo, consistenti in arnesi agricoli oltre che tegole, pezzi di pavimento ed una vasca in muratura sono stati rinvenuti nei pressi dell’attuale masseria.
Come nota curiosa, va detto, infine, che la tenuta dei Lucci, bosco compreso, almeno da un paio di secoli, viene trasmessa ereditariamente sempre in linea femminile di madre in figlia, sicché il cognome dei proprietari cambia sempre, nonostante la trasmissione sia sempre stata famigliare.
Sicché, guardando solo alle ultime cinque generazioni a mo di esempio da Giovanna Perez, passa a Francesca Mugnozza, da questa a Eleonora Giovanna de Lorenzo che la trasmette a Francesca Adorni, moglie del nostro amico Carlo Bracchetti, la cui figlia, Raffaella Bracchetti Adorni, grazie al doppio cognome, conserva oltre che la proprietà anche la memoria storica della madre.
A raccontarci, a suo modo e con lo stile e la competenza che la caratterizza, la passeggiata nel bosco è Paola Pino d’Astore, che ci ha accompagnati anche in giro per la masseria.
“Passeggiare per il bosco dei Lucci è come riappropriarsi del respiro della natura. La sentieristica è molto ben curata dai proprietari, Carlo e Raffaella Bracchetti Adorni, che da sempre e con grande cura e passione difendono il bosco da ogni forma di degrado. Ne sono gli autentici ed insostituibili custodi. Già dopo pochi passi ci troviamo avvolti tra le chiome di una pianta arborea, regina incontrastata di questo prezioso nucleo boschivo: si tratta della Quercia da sughero (Quercus suber), presente con esemplari secolari e maestosi, testimone dell’antica foresta di querce e che qui, nel territorio di Brindisi, rappresenta la stazione più orientale della specie nel bacino del mediterraneo e l’unica lungo il versante adriatico italiano.
E’ un’oasi ricca di specie selvatiche, circondata da campi coltivati. Costituisce un habitat prioritario per la Comunità Europea ed è dal 2002 Riserva Naturale Regionale.
Appena entrati nell’area boschiva, seguiamo un sentiero marginale, dove a protezione dei confini del bosco i proprietari Raffaella e Carlo raccolgono le pietre di calcarenite, trovate nei coltivi, per costruire un muretto a secco ed improvvisamente scorgiamo il volo veloce e basso di uno Sparviere che scompare tra la vegetazione, mentre sui coltivi un Gheppio perlustra alla ricerca di prede ed una Poiana prende quota, volteggiando in una corrente ascensionale. Una Tortora dal collare orientale sbuca dalla chioma di una quercia per nascondersi nuovamente alla nostra vista.
Altri passi in avanti e al di sotto del muretto a secco troviamo una tana di Riccio europeo e sul sentiero una penna di Barbagianni. I rapaci notturni ci sono tutti: oltre al Barbagianni, sono presenti il Gufo comune, la Civetta e l’Assiolo.
Mazzetti di ciclamino che incorniciano di colore rosa la macchia mediterranea e le vistose bacche rosse dello Smilace (Stracciabrache), della Rosa canina e del Pungitopo, ci indicano l’inizio dell’autunno, nonostante le temperature miti di questi giorni.
Non piove abbondantemente da molto tempo ed i quattro suggestivi avvallamenti che caratterizzano l’interno del bosco sono completamente asciutti e si possono attraversare a piedi. Rappresentano una raccolta e riserva di acqua utile per la vita degli anfibi, come la Rana verde ed il Rospo smeraldino, nonché di uccelli e mammiferi.
Ed a proposito di mammiferi, non solo abbiamo trovato le tracce di una Volpe lungo un sentiero, ma nel cuore del bosco ne abbiano sentito il salto a poca distanza da noi.
Interessanti Lecci, Querce Virgiliane, Querce Vallonee e soprattutto maestose Querce da sughero, sono immersi in un ricco sottobosco di macchia mediterranea (Lentisco, Mirto, Cisto marino, Asparago, Biancospino,Ginestrella, ecc..) dove trovano rifugio ed alimento testuggini terrestri, numerose lucertole, innocui serpenti tra cui il Colubro leopardino, il più bel serpente d’Europa e dove durante il nostro percorso è stato un continuo svolazzare di colorate libellule.
Uscendo dal bosco, ci accompagna l’allegro verso dell’Usignolo di fiume, mentre da un campo arato spiccano il volo tre grandi Cornacchie grigie”.