di Gianmarco Di Napoli per il7 Magazine
Negli ultimi giorni, in molti hanno ipotizzato che Brindisi sia all’improvviso pervasa dall’odio razziale e che le aggressioni a bastonate, ai danni di ragazzi di colore, siano il segno che qualcuno ha superato il limite della tolleranza, decidendo di passare alle vie di fatto con spedizioni punitive, paragonate addirittura a quelle del “Ku Klux Klan”. Le indagini in corso sui due episodi, probabilmente, chiariranno che dietro quelle aggressioni si celano motivi molto meno “razzistici”, inquadrabili invece in bieche vendette e ritorsioni delle quali i due ragazzi massacrati di botte sono state vittime inconsapevoli e incolpevoli. Non ci sono ronde di picchiatori, insomma. E il vero problema non è il razzismo. Anzi, paradossalmente, magari lo fosse.
Il razzismo infatti implica comunque il riconoscimento dell’esistenza di un altro essere, che poi non viene ritenuto all’altezza di occupare nella società ruoli paritari a quelli della razza considerata superiore, ma questa esistenza viene percepita.
Le grandi battaglie dei neri negli Stati Uniti iniziarono solo negli anni Sessanta, semplicemente perché prima non erano vittime di razzismo. Erano solo schiavi, privi di un’identità e persino di un’esistenza certificata all’anagrafe. Fantasmi.
Solo quando conquistarono la possibilità di studiare, lavorare, inserirsi nel tessuto sociale americano, con l’ambizione (e le possibilità) di poter ricoprire gli stessi ruoli e le medesime cariche dei bianchi, solo allora iniziò l’autentico razzismo. Che in fondo non è altro che il patetico tentativo di preservare diritti che si considerano acquisiti come se questi ultimi fossero inversamente proporzionali alla distribuzione di melanina nel corpo.
A Brindisi è impossibile parlare di “razzismo” perché ciò implicherebbe l’esistenza di una comunità di altra etnia con una sua precisa connotazione, inserita nella struttura sociale locale, censita con accuratezza e della quale si conoscono con precisione le dinamiche e le ambizioni. “Razzismo” sarebbe impedire agli extracomunitari di assumere ruoli nella pubblica amministrazione, occupare prestigiose cariche istituzionali, bloccarne la scalata nelle associazioni locali o nelle attività lavorative.
Ma non c’è nulla di tutto questo.
A Brindisi gli extracomunitari sono gli “invisibili”. Esattamente come gli “homeless” nelle grandi città. “I’m nobody. I don’t exist”, io non sono nessuno, non esisto, diceva Richard Gere in un film in cui raccontava la solitudine di un clochard. Sì, è vero, ci sono diverse associazioni e tanti volontari che, in silenzio, con grande cuore affiancano questi ragazzi nell’affrontare le loro difficoltà quotidiane. La chiamano con entusiasmo “integrazione”, ma paradossalmente essa diventa un ulteriore riconoscimento di emarginazione.
Perché questo straordinario impegno umano di chi mette a disposizione il suo tempo e il suo lavoro, non trova il supporto di una rete istituzionale che sia davvero nelle condizioni di fotografare la situazione: nessuno sa con esattezza chi sono, quanti sono e cosa fanno gli extracomunitari presenti a Brindisi.
C’è un’ottima struttura di prevenzione (la Digos locale è una delle più accreditate in Italia nell’individuazione di possibili terroristi), il livello di sicurezza è altissimo, ma chi non è un criminale sembra destinato a dover restare per sempre un fantasma.
L’esempio più immediato è quello di Eliah, il giovane ghanese picchiato nel sottopasso ferroviario. Eliah ha fatto studi di economia, parla tre lingue, vive a Brindisi da otto anni e lavora regolarmente. Il più grande dei suoi tre figli ha cinque anni: i bimbi parlano solo italiano con sfumature dialettali. Sono brindisini di pelle scura.
E’ stato picchiato senza motivo, per un mese non potrà tornare al lavoro. Eppure, a parte amici e volontari, è rimasto solo. Persino l’Amministrazione comunale, la cui connotazione politica non è solo di sinistra ma addirittura votata all’attivismo, si è dimenticata di lui. Un premio per il pensionato che dipinge i muri, neanche una stretta di mano per Eliah che, lunedì pomeriggio, sotto la pioggia, era alla fermata dell’autobus con un braccio immobilizzato in attesa di tornare a casa dopo la visita dal medico. Ma è come se non ci fosse. Quale razzismo ci può essere nei confronti di un invisibile?
In psicologia si chiama “disconferma”. E’ la negazione dell’altro come interlocutore: sei una persona sbagliata, anzi non esisti. Per disconfermare qualcuno è sufficiente fare una sola cosa: ignorarlo. Così Eliah vale esattamente quanto Bakaricila, l’altro ragazzo preso a randellate quella sera. Viveva nel dormitorio di via Provinciale San Vito e il giorno dopo ha preso le sue cose ed è scappato via. Non esistono. Così come non esistono quelli che alle tre di notte lasciano il dormitorio, inforcano una bicicletta e vanno a lavorare in campagna. Quanti saranno? Venti, trenta, cinquanta. Boh. E quanti sono davvero quelli che vivono all’interno di quel lager? Nessuno lo sa.
Non è un problema solo degli extracomunitari questo. Avere a che fare con gli “invisibili” aumenta il senso di inquietudine dei brindisini, perché essi fanno paura come ogni fenomeno sconosciuto. E possono apparire all’improvviso, anche quando non ci sono davvero, anche se non hanno fatto nulla di male: perché non c’è niente di più facile che accusare un fantasma. Non potrà mai difendersi, non esiste.