Brindisi spagnola: 200 anni che lasciarono il segno, tra arte e architettura

Dalla sua fondazione – nell’anno 1130 – ad opera del normanno Ruggero II d’Altavilla, fino alla sua estinzione – nell’anno 1861 – dopo la spedizione dei Mille e l’annessione al regno di Sardegna per poi costituire il nuovo regno d’Italia, il regno di Napoli – prima di Sicilia e poi delle Due Sicilie – nel trascorso dei suoi 730 anni di esistenza perse la sua indipendenza durante poco più di 200 anni, dal 1504 al 1734. Nel 1504, in conseguenza della pace di Blois, con cui Luigi XII di Francia e Ferdinando il cattolico di Spagna si spartirono l’Italia, riservandosi il primo il possesso della Lombardia, il secondo quello del regno di Napoli. Nel 1734, in conseguenza della sconfitta subita dall’esercito austriaco ad opera di quello spagnolo di Filippo V che insediò come re sul trono di Napoli Carlo di Borbone, figlio suo e di Elisabetta Farnese duchessa di Parma e Piacenza. Durante tutti quei 200 anni, quello di Napoli era rimasto declassato a viceregno, a provincia dell’impero spagnolo – e di quello austriaco nei soli ultimi 27 anni. Due lunghi secoli in cui il meridione italiano fu governato da una folta serie di – 40 – viceré spagnoli, che di volta in volta venivano insediati a Napoli dai vari re succedutisi sul trono di Spagna: Ferdinando, Carlos V, Felipe II, Felipe III, Felipe IV, Carlos II e Felipe V.

Dopo i primi convulsi decenni della dominazione spagnola, caratterizzati da una forte instabilità militare e politica, diretto riflesso della congiuntura internazionale completamente dominata dalla mai del tutto assopita lotta tra l’imperatore spagnolo Carlo V e il re francese Francisco I, solo con la pace di Cateau-Cambrèsis del 1559, perduta ufficialmente la dignità regale, il viceregno di Napoli iniziava la sua nuova vita di provincia. E per Brindisi, proprio quei primi decenni convulsi di dominio spagnolo sul regno di Napoli, non poterono essere di un inizio di peggiore: con la terribile peste nel 1526, con il crollo senza apparente causa della colonna romana nel novembre del 1528, e con il devastante sacco della città nel 1529.
«Precisamente nel 1526, allì 24 del mese di luglio, incominciò la peste in questa città e durò un anno continuo, dove ne morirono ottocento persone… Allì 20 novembre del 1528 il pezzo supremo restò sopra l’infimo, mentre quelli compresi fra la base e il capitello, caddero a terra. Nessuna disgrazia successe, i pezzi caduti furono poi portati a Lecce e il supremo vedesi ancora al giorno d’oggi con meraviglia rimanere attraversato sull’infimo… Allì 28 di agosto 1529, cominciò a darsi sacco di notte per celar forse col buio delle tenebre, la crudeltà ch’usavano. Non perdonarono a cosa alcuna, umana o divina, furono gl’infelici vecchi, e l’innocente vergini tratti per barba e per crine, acciò rivelassero le nascoste ricchezze, furono abbattuti i chiusi claustri, e fracassate le caste celle delle spose di Dio. Restò per qualche conforto alla depredata città il cadavere del general nemico, che fu seppellito nella chiesa di Santa Maria del Casale nell’entrar della porta principale della chiesa, dove fino a tempi nostri si lesse quest’iscrizione nel sasso: Hic iacet Simeon Thebaldus Romanus, imperator exercitus.»

Quando il castellano Hernando de Alarcón rientrò a Brindisi da Napoli, incontrò la città “povera e disfatta, con i due castelli molto maltrattati dalle batterie nemiche”. Alarcòn, che apprezzò il valore con cui i difensori dei due castelli avevano resistito con successo gli attacchi delle forze francesi veneziane e papaline, conosceva bene le strutture difensive di Brindisi da quando, nel 1516, nominato castellano generale, aveva dato inizio alla costruzione del bastione di San Giorgio, alla ristrutturazione di quello di San Giacomo e, tra i due bastioni nelle adiacenze di Porta Mesagne, all’edificazione di un terzo bastione intitolato a Carlo V, nonché al completamento delle cortine murarie di Porta Lecce e della stessa porta. Da subito, infatti, i governanti spagnoli ebbero ben chiara la strategicità di Brindisi, una strategicità militare che ne marcò e condizionò anche la funzionalità politica durante tutto il periodo vicereale, a partire dal trattato di Cambrai del 5 agosto 1529 con cui Carlo V si arrogò il diritto di nominare nel viceregno di Napoli 18 vescovi e 7 arcivescovi, tra i quali quello di Brindisi. E così la chiesa brindisina, che fino ad allora era appartenuta ai pontefici, divenne regia, garantendo ai re di Spagna, con la nomina di tutta una serie di prelati spagnoli, la fedeltà della strategica città.

Certo è, che nello scorcio di quel difficilissimo anno 1529, dopo la terribile peste, dopo il crollo improvviso della colonna romana, dopo l’assalto e il saccheggio delle truppe papali, Brindisi era ormai giunta allo stremo e la sua popolazione si era ridotta a meno di 400 fuochi, circa 2000 abitanti, un minimo da allora mai più toccato. E i trent’anni che seguirono sotto il trono di Carlo V non cambiarono il passo delle cose per l’impoverita città, laddove il timido tentativo di ripopolamento affidato ad una colonia di Coronei nel 1536, non compensò certo l’espulsione degli Ebrei decretata alla fine del 1539.
A causa del rinnovato timore di nuove scorrerie turche, il nuovo re Filippo II dispose il rafforzamento delle difese di Brindisi, e nel 1558 si cominciò a costruire Forte a mare. Sull’isola di Sant’Andrea la nuova fortezza, assecondando la geometria del terreno, assunse la forma di un triangolo isoscele il cui vertice era sull’antico castello. In ognuna delle due cortine che dalla fortezza si distendono lateralmente fino agli angoli alla base, furono creati due baluardi e dalla parte interna delle mura furono fabbricate grandi caserme adatte all’alloggio di soldati e ricoperte da solida volta ridotta a strada utile per il passaggio delle artiglierie. Si convenne poi di lasciare le due fortezze disunite, ingrandendo e approfondendo il fosso già praticato al momento della costruzione del castello e trasformandolo in una darsena di collegamento tra le due strutture, per poter così impedire al nemico che avesse eventualmente conquistato una fortezza di passare facilmente sull’altra.

I lavori per la costruzione del forte durarono ben 46 anni, sia a causa dell’indisponibilità dei materiali e di altre varie difficoltà tecniche, e sia a causa delle molteplici modifiche ed aggiunte apportate al progetto iniziale e, parallelamente all’esecuzione degli impegnativi e complessi lavori di costruzione del forte dell’isola, si elaborò e quindi si materializzò anche un piano completo volto al rafforzamento delle difese costiere di Brindisi. E così, lungo il litorale furono edificate in serie ben quattro nuove torri: Torre Testa, Torre Penna, Torre Mattarelle e Torre Guaceto, che vennero ad affiancare la preesistente angioina Torre Cavallo.
Sul fronte civile, stabilizzatasi finalmente nel 1559 la situazione internazionale ed in conseguenza anche quella del viceregno, a Brindisi – che continuo ad appartenere alla provincia d’Otranto la cui capitale Lecce era sede del regio governatore della provincia e della regia camera della sommaria – lo status amministrativo della città durante tutta l’età vicereale non subì cambiamenti sostanziali rispetto a quelli che erano stati stabiliti durante il precedente regno aragonese, specificamente quello del re Ferrante che ne approvò lo Statuto nel 1485.
A Brindisi erano di nomina reale e perlopiù spagnoli, il giudice e il governatore militare, che oltre ad essere il comandante della piazza militare coadiuvato dai castellani, anch’essi di nomina reale, sovrintendeva l’azionare dell’amministratore locale: il Sindaco, l’elemento più rappresentativo del governo cittadino, che invece era di Brindisi ed aveva attribuzioni molto ampie, coprendo tutto l’ambito amministrativo. Dal controllo della polizia, al controllo sui pesi e le misure, alla manutenzione delle mura cittadine, alle competenze specifiche in campo finanziario con la vigilanza sulle spese e sugli introiti la vendita dei dazi e delle cose pubbliche, eccetera.

Secondo lo Statuto del 1485, il sindaco e tre auditori venivano segnalati dagli uscenti e nominati dal re o dal governatore di Terra d’Otranto; gli eletti, in numero di dodici, di cui quattro nobili, sei gentiluomini e due stranieri abitanti in Brindisi, venivano scelti su ventiquattro segnalati ai parlamentari, dagli stessi amministratori uscenti. La carica durava un anno: dal primo di settembre alla fine di agosto. L’elezione avveniva quindici giorni prima, ossia a metà di agosto. Si giurava sul Vangelo nella cappella di San Teodoro, in cattedrale.
Regnando sul trono di Spagna il nuovo re Felipe II, nel 1560 la popolazione di Brindisi è tassata in più di 1600 fuochi ed è avviata a crescere ancora fino a raggiungere nel 1618 i 10000 abitanti. Una città che aveva quindi, quanto meno, recuperato la sua popolazione: un buon segno certo, anche se purtroppo non tutto stava procedendo per il meglio, tant’è che quel limite demografico non era destinato a mantenersi a lungo e dopo un nuovo e pronunciato decadimento sarebbe ritornato solo sul finire della esistenza dello stesso stato, nel 1860.

Il prolungato domino spagnolo, infatti, doveva rivelarsi – politicamente economicamente e socialmente – deplorevole: I viceré di turno non miravano ad altro che a razzolare introiti con le imposte che crescevano mentre le entrate, oltre che al papa di Roma, passavano – fino a due terzi del totale – in Spagna, per pagare soldati e spese di guerra. I nobili, insieme al clero, erano proprietari fondiari e comandavano senza remore beneficiando d’immunità e privilegi, con i prelati di rango più elevato che rivaleggiavano con la nobiltà per sfoggio di ricchezza. La logica di governo della monarchia spagnola, infatti, era stata quella del compromesso politico e dello scambio, riconoscendo al clero e alla classe dominante una serie di privilegi in cambio di una supposta fedeltà e così, durante tutto quel lungo periodo, si rafforzarono l’aristocrazia feudale e il grande latifondo, portando le campagne a una situazione precaria e i contadini al depauperamento generalizzato.
«Fra le mura cittadine di Brindisi, sacerdoti e milizie erano le classi che facevano parlare di sé, mentre la nobiltà, sfaccendata, tronfia e inframmettente, contrastava con la massa degli artigiani, contadini e pescatori, laboriosi sì, ma alle prese col disagio e tenuti estranei alla vita cittadina. Pel resto, la vita brindisina di quei tempi è tutta piena di litigi, di agitazioni, di ripicchi e pettegolezzi, i quali talvolta si manifestavano con epigrammi e pasquinate. Litigava l’arcivescovo col Capitolo e con la città, litigavano i diversi ordini monastici – Teresiani, Cappuccini, Riformati, Conventuali, Zoccolanti, Domenicani – fra di loro, con la civica amministrazione, col Capitolo, coi privati. E tali litigi, oltre che su interessi, poggiavano talora su frivoli motivi, come quelli di precedenza e di distinzione, e molti dei rapporti erano esternati attraverso formalità di ossequio, espressioni verbali, spalliere o poggioli alle varie sedie riservate negli atti ufficiali, e quant’altro di simile. E in più d’una volta tali urti sboccarono in gravi provvedimenti, come la scomunica lanciata dagli arcivescovi contro i sindaci.»
In tutto il regno cominciarono presto a dilagare il pervertimento e la corruzione, passata dalle corti alla nobiltà e da questa al popolo. L’abitudine al lavoro cominciò ad essere disprezzata, mentre con il fasto e il lusso imperanti si finì col coltivare più l’apparenza che la sostanza. L’economia andò svanendo e con i terreni rimasti incolti le rendite nobiliari andarono scemando. L’ozio, la voglia di primeggiare e costruire di palazzi portò non poche famiglie alla rovina, mentre cresceva la ricchezza del ceto civile del quale facevano parte avvocati, notai, appaltatori, banchieri, medici e prestatori di denaro.

Lentamente, alcuni patrimoni iniziarono a scivolare dalle tasche della nobiltà a quelle del ceto medio, rappresentato, oltre che dagli appaltatori di gabelle, dai mercanti di pochi scrupoli, nonché dagli avvocati e i notai che si arricchirono sfruttando la litigiosità della classe abbiente. Basti pensare che a Brindisi per ben quattro anni, tra il 1558 e il 1562, si prolungò il litigio tra i nobili e i nobili viventi – i discendenti non primogeniti di nobili e coloro che si erano nobilitati esercitando le professioni liberali o militari – a proposito del ceto a cui doveva appartenere il sindaco, finché la lite fu portata addirittura al Consiglio Collaterale in Napoli, che alla fine deliberò salomonicamente stabilendo che per ogni 3 anni, in 2 doveva essere scelto tra i nobili viventi e in 1 tra i nobili.
La giustizia del resto era lenta, la magistratura venale e inoltre la vita e le proprietà divennero poco sicure a causa del diffuso brigantaggio, che andò assumendo su tutto il territorio del regno napoletano una consistenza ampia e duratura, nonostante la spietata repressione dello Stato sferrata da parte dell’esercito e della polizia.
En fu in quel clima che inevitabilmente maturarono le rivolte popolari – del pescivendolo amalfitano Masaniello a Napoli il 7 luglio 1647 e ancor prima, dei pescivendoli brindisini Donato e Teodoro Marinazzo delle Sciabiche il 5 giugno 1647 e poco dopo, in Sicilia il 15 agosto 1647 – scoppiate tutte sotto la spinta della miseria che da tantissimo assillava il popolo caricandolo di disperazione e, verosimilmente, di odio. Un odio popolare che, anche se esternato soprattutto verso la nobiltà, percepita a buona ragione come principale dissanguatrice, non risparmiava neanche il governo che, mentre accontentava il popolo con concessioni di qualche rappresentanza nelle amministrazioni locali – come, per esempio, gli eletti al Sedile – e lo appoggiava in certe dispute spicciole con i nobili, nello stesso tempo lo sottoponeva alle strette mortali di un fisco spietatamente esoso.

E quegli anni vicereali a Brindisi furono anche anni di continue e temutissime scorribande turche, nella più grave delle quali fu saccheggiato Torchiarolo nel 1673. Il 10 ottobre 1676 una galeotta turchesca fece sbarco tra la torre della Penna e la torre delle Teste, e fece dodici schiavi dalle masserie vicine e a Brindisi. Nel luglio 1681, Specchiolla, malgrado la resistenza opposta dai terrazzani, fu saccheggiata. E non mancarono numerose le carestie, la più grave delle quali a Brindisi si verificò nell’anno 1694: una carestia generale di grano, di vino, d’orzo, di fave, nonché di tanti altri commestibili. Poi, per colmo delle sventure, l’8 settembre di quello stesso anno ci fu un forte terremoto con relativo maremoto. E non finì lì: il seguente 29 settembre si produsse un disastroso incendio nel monastero di San Benedetto che ne distrusse una buona metà, obbligando le monache nere di clausura a uscire in piena notte per rifugiarsi nel vicino monastero di Santa Maria degli Angeli.
I 200 anni spagnoli, cominciati per Brindisi nel peggiore dei modi e sotto i più tetri auspici, stavano avviandosi alla conclusione in un clima non certo migliore, e così non desta troppa meraviglia che né il popolo e né i nobili si preoccuparono di contrastare l’avvicendamento reale – tra Spagnoli e Austriaci – sul trono di Napoli, che dopo due secoli di dominio spagnolo si consumò agli inizi del ‘700. Il popolo perché del tutto immiserito stanco e senza prospettive, e i nobili perché memori che i governanti spagnoli erano stati spesso pronti, conoscendo la riottosità e prepotenza baronale, a favorire, anche se entro limiti ben stretti, le aspirazioni popolari nei confronti del ceto nobile, al duplice scopo di limitare il prepotere nobilesco e tener buona la massa popolare.
«A dì 4 giugno 1715 vennero di presidio a Brindisi 150 soldati tedeschi col di loro capitano, tenente ed officiali, e a dì 18 andarono nel Forte e cinquanta con il tenente passarono al Castello di terra. La sera dell’istesso giorno venne in questa città il generale tedesco Valles e il giorno seguente 19 andò nel Castello di terra e sbarrò le piazze agli Spagnoli e il giorno 20 andò al Forte e fece il medesimo. Discesero dal Forte in questa città settecento anime spagnole e cento in circa dal Castello di terra, mentre nessuno di loro volle andare a servire a Napoli e in Ungheria il nuovo impero». Quasi tutti quei soldati spagnoli infatti, preferirono, pur se in miseria, rimanere a Brindisi, nonostante l’antipatia dei brindisini maturata per quel momento nei loro confronti, come manifestata anche quando nessuno volle prestarsi per il frettoloso trasloco delle loro famiglie e le loro masserizie.

Ma era stato tutto così irrimediabilmente negativo? Null’altro che formidabili strutture militari avevano lasciato a Brindisi gli Spagnoli? No, per ventura e per fortuna di Brindisi e dei Brindisini: no. Gli Spagnoli han lasciato anche molto altro, sia nel tangibile e sia nell’animo della città. Nel tangibile: imponenti strutture religiose, con chiese superbe; solide masserie in campagna e importanti palazzi d’epoca in città; la mappa spagnola di Andrea De Los Coves con una diffusa toponomastica e, in centro, l’originale fontana voluta nel 1618 dal governatore Aloysio De Torres. Nell’animo, e nella cultura, han lasciato probabilmente molto di più: costumi, linguaggio, e la copiosa eredità costituita dai cognomi e dal proprio DNA dei tantissimi Spagnoli che in quei 200 anni da Brindisi passarono, che a Brindisi vissero e, soprattutto, che a Brindisi misero solide e profonde radici.
In quel già ricordato anno 1618 – essendo re di Spagna Felipe III, viceré di Napoli Pedro Giròn, governatore il capitano Pedro Aloysio De Torre, arcivescovo Juan Falces e sindaco Cesare D’Aloysio – mancava solo un anno alla conclusione della costruzione, iniziata 1609, della meravigliosa chiesa di Santa Maria degli Angioli con l’annesso monastero delle Clarisse – poi demolito nel ‘900 per far posto alle scuole elementari – opere entrambe promosse dall’illustre brindisino Lorenzo Russo, il futuro San Lorenzo da Brindisi, già generale dell’ordine dei Cappuccini, che doveva morire a Lisbona l’anno seguente, nel giorno del suo compleanno 60.
E già prima, l’arcivescovo Giovanni Carlo Bovio aveva chiamato a Brindisi i frati Cappuccini, che nel 1588 costruirono il loro convento con l’annessa chiesa di Santa Maria della Fontana – da tutti detta dei Cappuccini – che, al contrario del convento ormai anch’esso demolito, è giunta fino ai nostri giorni ed è stata mirabilmente restaurata e restituita al culto poco più di dieci anni orsono.

Miglior sorte è invece toccata a un altro monastero edificato nell’era spagnola, quello di Santa Teresa, originalmente intitolato ai santi Gioacchino e Andrea, attualmente sede dell’Archivio di Stato, accorpato alla splendida chiesa omonima, di Santa Teresa, completata poco prima, nel 1697, originalmente intitolata a San Gioacchino e ubicata nel quartiere che già allora si chiamava “degli spagnoli”, contiguo a quello di San Pietro degli Schiavoni, lo storico quartiere di cui restano poche tracce e anch’esso consolidatosi nel periodo spagnolo.
Le Clarisse, prima del trasferimento al nuovo convento cappuccino degli Angioli, erano state in quello adiacente alla chiesa di Santa Chiara prossima al Duomo, un complesso edificato circa il 1580 dall’arcivescovo spagnolo Bernardino Figueroa. Convento poi adattato a orfanatrofio femminile e in seguito più volte ristrutturato e modificato per assolvere altre funzioni, tra cui quelle di istituto professionale femminile e quindi nuovamente di orfanatrofio vincenziano. La proprietà del complesso finalmente, con il regno d’Italia passò al Comune e, sconsacrata la chiesa, è stato successivamente rimpiegato a vari fini, educativi sociali e culturali.
Sono tuttora conservati, invece, chiostro e convento edificati circa il 1635 a ridosso della trecentesca chiesa di Santa Maria del Casale dai padri Minori Osservanti Riformati. Mentre solo poche strutture sopravvivono di quello che fu il convento delle Scuole Pie, che l’arcivescovo spagnolo Francisco Estrada fondò nel 1664 a proprie spese – acquistando ampliando e restaurando integralmente l’antica chiesa di San Michele Arcangelo, ora sconsacrata, che con l’annesso dormitorio apparteneva ai padri Celestini di Mesagne – e dove per molti anni funzionò la scuola dei padri Scolopi. Convento e scuola che per la città costituirono un importante riferimento culturale, tanto che la strada che l’ospitava e che portava al Duomo, fino a tutto l’800 si intitolò alle Scuole Pie.
Un’altra bella chiesa di Brindisi, infine, perfettamente conservatasi dall’epoca spagnola, è quella intitolata a San Sebastiano, detta anche delle Anime, la cui costruzione fu promossa nel 1668 dall’Arciconfraternita del Purgatorio e fu aperta al culto dal già citato arcivescovo Francisco Estrada, il 13 agosto dell’anno 1671.

I palazzi a Brindisi d’epoca spagnola, naturalmente, sono ancor più numerosi – quasi una ventina in tutto – più o meno nobiliari, più o meno ben conservati e più o meno conservatisi con i caratteri originali e, comunque, certamente tra quelli più antichi tuttora presenti in città: il Palazzo Granafei in via Duomo, il Fornari in via Palma, il Delle Donne-Pignaflores in via San Benedetto, il Ripa-Lacolina, l’Orlandini e il Greco in via Lata, il De Marzo in largo Concordia, il Pennetta-Laviano su largo Laviano, il Perez in via San Nicolicchio, lo Scolmafora e il Perez in via Colonne, il Baoxich-De Marco in piazza Duomo, il Ripa e il Cafaro in via Carmine, il Mezzacapo in via Seminario, il Seripando-Leanza in via Tarantini, il Montenegro in viale Regina Margherita.
E quale eredità culturale più significativa ci può essere, se non la propria lingua? Ebbene, posso assicurare per personalissima cognizione, che il dialetto brindisino è intriso di una eredità spagnola decisamente notevole. Ecco qui, su uno spazio necessariamente limitato e solo per dare l’idea, alcuni esempi di parole brindisine, alle volte rigorosamente uguali a quelle spagnole, altre volte foneticamente simili e comunque di uguale significato: cuchiara- fùciri- mala- scampari- cincu- mughieri- menzatìa- vientu- muertu- scarfari- suennu- sparagnari- còsiri- scundutu- mustazzi- jertu- laianaru- ntruppicari.
Ed eccoci infine a commentare quella che è probabilmente a Brindisi l’eredità spagnola più significativa: i cognomi, i Brindisini cioè certamente discendenti diretti di quei tanti Spagnoli – popolarmente al tempo chiamati “Iannizzi” probabilmente per il loro incedere spavaldo proprio dei giannizzeri, le guardie del corpo di personaggi potenti – che qualche centinaia d’anni orsono vennero a Brindisi e qui scelsero di mettere radici: Lopez, Martinez, Piliegos, Arellianos, Lafuentes, Diaz, Cafarellas, Pincas, Canillas, Perez, Rodriguez, Scivales, Sierra, Fernandez, Caravallos, Garcia, Serrano e altri ancora. Qualcuno dei cognomi ha magari con il tempo perso la “s” finale, o ha subito qualche altra distorsione fonetica, e qualche altro invece si è estinto o si è trasferito in altre parti d’Italia. Alcuni, infine, si sono probabilmente mimetizzati, e comunque, certo è, che di sangue spagnolo tra i Brindisini d’oggi deve star scorrendone ancora parecchio.