Dalla «Scu» a Mani Pulite: un pm brindisino ora a capo della procura di Brescia

A 31 anni era stato il primo magistrato brindisino ad aver compreso che la Sacra corona unita non era una semplice banda di pecorari sanguinari ma un’organizzazione mafiosa. E l’aveva sfidata frontalmente, con la coraggiosa incoscienza di un giudice ragazzino, laureatosi pochi anni prima, che viveva solo e senza protezione a pochi chilometri dalle masserie di Torre Santa Susanna che erano il quartier generale della mattanza. La “Scu”ammazzava in serie: quattro ragazzini trucidati e seppelliti a San Pancrazio Salentino, agguati nelle piazze, gruppi di fuoco che uccidevano persino nelle corsie degli ospedali. Francesco Prete per due anni, tra il 1989 e il 1981, supportato da un gruppo di carabinieri, sfidò frontalmente la Sacra corona unita con 32 arresti. Da lì partì il primo maxiprocesso brindisino alla “Scu”, quello che portò poi alle condanne durissime dei boss della quarta mafia, tuttora in carcere proprio per quelle indagini.
Poco meno di trent’anni dopo lo ritroviamo, fresco di nomina, alla guida di una delle procure più importanti e delicate d’Italia, quella di Brescia. Ci è arrivato con nomina del Consiglio superiore della magistratura dopo un testa a testa con l’altro candidato, l’ex procuratore di Sondrio, Fabio Napoleone.
Sul piano strategico la procura di Brescia è doppiamente importante: insiste su un territorio di oltre tre milioni e mezzo di abitanti, ma soprattutto è competente su eventuali procedimenti giudiziari a carico di magistrati di Milano. E qui, si comprenderà, la partita diventa delicata.
In Lombardia Prete è di casa: dopo gli studi classici e la laurea con 110 e lode all’Università di Perugia, il primo incarico, a soli 27 anni, è arrivato presso la procura di Bergamo. Poi due anni a Brindisi e il trasferimento a Milano, in pieno terremoto “Mani Pulite”.
Procuratore Prete, quanto ha inciso sulla sua formazione quell’esperienza così forte vissuta a Brindisi negli anni più sanguinari del Dopoguerra?
“Anche se poi successivamente sono stato nominato alla Direzione distrettuale di Milano, quegli anni a Brindisi, quando non esistevano ancora strutture della magistratura che si occupassero specificamente di criminalità organizzata sono stati importantissimi per il mio bagaglio professionale. Proprio in quei due anni ci fu un’impennata della Sacra corona unita e ci trovammo all’improvviso davanti a un fenomeno che assumeva dimensioni importanti. Proprio io iniziai un’indagine che destrutturò i vertici dell’organizzazione: eravamo agli albori ma si intravedeva qualche timida collaborazione, mi colpì quella del padre di alcuni dei ragazzi trucidati a San Pancrazio. Ricordo che il fulcro era Torre Santa Susanna. Lavorammo bene, il teorema accusatorio portò all’esecuzione degli arresti e poi resse anche nella sua face processuale che non ebbi la possibilità di seguire personalmente perché nel frattempo ero stato trasferito alla Procura di Milano”.
Quindi i suoi ricordi professionali si intrecciano con quelli personali. Possiamo dire che è ancora legato a Brindisi?
“Non parliamo di ricordi perché io Brindisi la vivo costantemente perché ci torno, ho una casa in campagna a Mesagne e la vivo con grande intensità. Ho parenti a Brindisi e a Lecce (mio cugino Nicola è stato prefetto di Brindisi) e ovviamente a Francavilla Fontana che resta la mia città. Sono cresciuto con i ragazzi del viale (Lilla, ndr) dove tutte le sere ci incontravamo. Quasi tutti i miei amici sono gli stessi di quegli anni: legami autentici, genuini, che si sono consolidati negli anni nonostante ognuno di noi abbia preso strade diverse e viva anche molto lontano”.
Lei in qualche modo si è trovato sempre al posto giusto al momento giusto: alla nascita della Sacra corona a Brindisi e poi il trasferimento a Milano proprio mentre esplodeva i fenomeno “Mani pulite”.
“E’ vero, a Milano mi sono trovato in una situazione di grande complessità e con difficoltà operative importanti. Ma sul piano della formazione professionale è stato determinante: corruzione, tangenti. Facevo parte del pool Mani Pulite seppure occupandomi di aspetti settoriali specifici: sanità e militari, soprattutto. Poi per due anni alla Dda nella lotta al traffico di stupefacenti”.
La procura di Milano era in quel periodo il centro dell’Italia che cambiava, il luogo in cui veniva decapitata la Prima Repubblica. Vi rendevate conto che all’improvviso un gruppo di pubblici ministeri, tipologia di magistrati dei quali l’opinione pubblica a stento conosceva l’esistenza, stava cambiando la storia dell’Italia?
“Ci siamo trovati a dover colmare un vuoto che si era creato ed era evidente. La situazione andava presa di petto e i pubblici ministeri si sono resi conto che toccava a loro: la procura era l’unico organo dello Stato che poteva occuparsi di un fenomeno, quello della corruzione politica, che ormai stava esplodendo. Non ce la siamo cercata, ma ci è piovuta addosso. Noi abbiamo avuto la capacità di intervenire riportando il rispetto della Legge come priorità rispetto a una logica della politica ormai deviata. Da qui la gente ha iniziato a nutrire in noi grandi aspettative, anche eccessive, si sono determinate esagerazioni in un senso e nell’altro. Perché prima c’è stato un grande consenso, poi molto presto la situazione si è ribaltata sino a mettere in dubbio il ruolo del pubblico ministero”.
Approfittando di questa popolarità molti suoi colleghi hanno scelto la strada della politica. Lei è mai stato tentato dal dare una svolta in questo senso alla sua vita?
“No perché io non sono una persona appetibile per la politica e soprattutto la politica non mi interessa, non mi sento portato. Ho scelto sin da giovanissimo la strada della magistratura requirente”.
La considera una missione?
“Assolutamente no, però sento di poter dare lì il meglio di me. Da undici anni svolgo le funzioni di dirigente di uffici di Procura. Sono convinto che sia un compito importante perché le procure devono funzionare bene, nonostante spesso contino su un numero di magistrati non sufficiente a quello dei fascicoli penali. Il dirigente deve rimboccarsi le maniche e far funzionare l’ufficio, organizzando e ottimizzando le risorse”.
Si è occupato nel corso degli anni di inchieste molto delicate, tra queste una sul gravissimo incidente all’interno di una camera iperbarica dell’istituto ortopedico Galeazzi. E’ stata quella che l’ha coinvolta di più emotivamente?
“Mi sono occupato di numerose vicende di questo genere. Ho condotto un’indagine che ha portato alla condanna di 250 persone nella sanità lombarda in un solo processo e questa è stata forse la mia inchiesta più impegnativa. Abbiamo lavorato molto sulle truffe e le corruzioni nel sistema sanitario. Ho seguito casi di grande disumanità, ma soprattutto quello che abbiamo messo in luce è che molti considerano ancora la sanità uno dei business principali. E invece chi si occupa di curare i pazienti non può guardare al profitto e alle esigenze economiche. E’ tutto qui il problema: la sanità va organizzata con altri parametri per poter funzionare”.
Ora che è a capo della procura di Brescia avrà la competenza giudiziaria sul lavoro svolto dai magistrati di Milano dove ha prestato servizio per 17 anni. Sente una responsabilità gravosa quella di dover procedere eventualmente contro i suoi ex colleghi?
“Si tratta di un compito che spetta alle procure distrettuali limitrofe, si tratta indubbiamente di una responsabilità alla quale non mi sottrarrò. Ma non può diventare un fattore di primaria importanza per la procura di Brescia. Il territorio è molto esteso e il comparto industriale qui è tra i più importanti d’Italia e d’Europa. E dove c’è economia fiorente ovviamente c’è criminalità. Ecco, il nostro impegno principale sarà in questa direzione”.
Quando completerà la sua carriera, sceglierà di tornarsene a Brindisi o resterà al nord, visto che vi ha trascorso buona parte della sua vita?
“Chi lo sa? Direi che intanto c’è tempo, ho ancora davanti nove anni. Non lo escludo, ho grande cura della mia casa mesagnese, i miei amici di Francavilla lo sanno. Ho tre figli che sono cresciuti trascorrendo le estati in Puglia e creando un legame forte con quella terra. Non saprei. Ma anche se non dovessi tornarci a vivere sarà comunque sempre la mia casa”.