Dona il midollo e salva una vita: Paolo, eroe sconosciuto

di Gianmarco Di Napoli per IL7 Magazine

“Se un giorno dovessi incontrarlo? Gli direi semplicemente: è stato un piacere”. Lo sguardo di gratitudine di un essere umano verso chi gli ha salvato la vita è forse il premio più bello per qualsiasi “eroe per caso”, ma Paolo Scarafile non riceverà mai alcun ringraziamento perché chi dona le sue cellule staminali per strappare alla morte un malato di leucemia non conosce, né conoscerà mai, l’identità del malato. E quest’ultimo, allo stesso modo, non saprà chi gli ha ridato la vita.
Paolo è uno studente latianese che dimostra meno dei suoi vent’anni. Il papà Giuliano lavora in uno studio notarile, la mamma, Daniela Lanzillotti, è insegnante di sostegno alla scuola media. C’era una possibilità su 100 mila che risultasse compatibile per la donazione. Paolo è uno su centomila.
La sorte però è marginale in questa storia, perché ogni anno i volontari dell’Admo di Brindisi vanno in giro per le piazze e per le scuole a spiegare come una semplice donazione possa salvare la vita di un malato di leucemia o linfoma. Paolo Scarafile aveva accolto l’invito: “Era il mese di novembre 2015 e frequentavo l’ultimo anno al Majorana. Quando senti che puoi salvare una vita, anche se c’è una sola possibilità al mondo, lo fai. Ricordo che venne a scuola Amedeo Gioia dell’Admo, ci spiegò tutto. Decisi di iscrivermi e qualche giorno dopo feci la tipizzazione”.
La tipizzazione consiste in un prelievo di sangue che consente la mappatura genetica e l’inserimento nel registro internazionale dell’Associazione donatori di midollo osseo. Paolo lo ha fatto e ha riposto nel cassetto il suo tesserino Admo, concentrandosi sugli Esami di maturità, superati per altro con il massimo dei voti. Poi si è iscritto a Fisica, all’Università di Bari. E ha cambiato numero di telefono.
“All’inizio di quest’anno stavo preparando un esame. Ero un po’ in difficoltà, non avevo ingranato bene, stavo ripetendo l’orale di “Fisica 1”. Su Facebook vedo alcuni messaggi del vicepresidente regionale dell’Admo, Simona Sgura, e di Amedeo Gioia. Non gli do troppa importanza, pensando a un invito per qualche incontro degli iscritti. Quando vedo che insistono smetto di studiare e li contatto. Mi dicono che mi stanno cercando dal Centro di tipizzazione del Policlinico e che non riescono a parlare con me. Ovvio, hanno il mio vecchio numero di telefono”.
Paolo chiama il reparto, gli spiegano che ci sono buone possibilità che sia compatibile per una donazione e poi gli pongono la fatidica domanda: tu sei sempre intenzionato a donare? “Mi hanno spiegato che spesso gli chiudono il telefono in faccia. Un conto è iscriversi, un altro e trovarti di fronte alla decisione di affrontare davvero la donazione, di compiere questo passo. Non ho avuto il minimo dubbio: lo faccio”.
La tappa successiva è informare i genitori. Sorride. Non ricordavano nulla, neanche della sua iscrizione all’Admo, ai tempi della scuola: “Faccio una videochiamata con Whatsapp, la prendo un po’ alla larga: vi ricordate in quinto superiore, la tipizzazione? Loro mi guardano perplessi. Sono compatibile, devo donare il midollo osseo a un malato, gli posso salvare la vita. Loro hanno un attimo di smarrimento. Poi mio padre mi dice: fallo, è una cosa importante, ma non ti distrarre dallo studio. Avevo bisogno del supporto dei miei”.
Il percorso non è semplice. Bisogna essere determinati. Incontra i medici, effettua nuovi prelievi di sangue, riempie questionari, racconta il suo percorso compiuto nell’ultimo periodo. Tutti elementi utili non solo a tutelare il malato ma anche lo stesso donatore. “Mi ricontattano dopo un mese e mi dicono che la compatibilità è totale. Ogni quattro o cinque giorni vado al Policlinico per effettuare analisi urine, emocromo, ecografie, ecocardiogramma. Vogliono essere certi che nessuna influenza esterna possa condizionare la donazione”.
I medici gli spiegano a quali rischi va incontro, pochissimi in verità, e gli chiariscono le regole: la donazione è anonima, non avrebbe mai conosciuto il ricevente, non avrebbe ricevuto alcuna retribuzione. Per cinque giorni si pratica da solo piccole iniezioni sottocutanee che servono ad aumentare il numero delle staminali in attesa della donazione. E l’Università?
“Può sembrare incredibile, ma in questo periodo è avvenuta la mia svolta negli studi. Fino ad allora non rendevo bene, c’erano giorni che non avevo voglia di alzarmi dal letto. E invece ho iniziato a svegliarmi alle otto del mattino, anche quando non dovevo andare al Policlinico. Mi sentivo addosso energia e determinazione, avvertivo che stavo facendo qualcosa di importante e riuscivo a concentrare questa positività anche negli studi. In quei mesi ho dato due esami e li ho superati con ottimi voti, i migliori sul mio libretto”.
Paolo andava a piedi al Policlinico dove ormai era quasi di casa: “Era strano perché i medici non mi trattavano come un paziente, ma come uno dello staff. Una bellissima sensazione, un percorso condiviso sino all’ultimo”. Da paziente ci era stato qualche anno prima in corsia: incidente in moto. “In curva sono finito contro un’auto, mi sono fratturato, un mese in ospedale”.
Il giorno della donazione arriva circa cinque mesi dopo il primo colloquio al Policlinico e quasi due anni dopo la tipizzazione. “La notte prima ho dormito tranquillamente, molto più sereno della vigilia di un esame. Mi ha accompagnato mia madre mentre mio fratello Domenico (che sta facendo la specialistica dopo la laurea in Ingegneria, ndr) ci aspettava a casa. Verso le 9 mi hanno fatto accomodare in una stanzetta del reparto e mi hanno collegato alla macchina: il sangue mi veniva prelevato da un braccio, finiva in un separatore cellulare che raccoglie le staminali, e veniva reinfuso attraverso il braccio opposto”.
Dura quasi cinque ore, con il corriere pronto dietro la porta a partire per la destinazione ignota nella quale il ricevente già attendeva la sacca per sottoporsi al trapianto, entro le 48 ore successive. E, probabilmente, per iniziare da quel momento una nuova vita, dimenticando le sofferenze e le paure degli ultimi anni. Quando la sacca di cellule staminali era già in viaggio, Paolo concludeva la sua esperienza di donatore: “Mi hanno trattenuto un’oretta per verificare le mie condizioni. Stavo bene, solo un po’ stanco per quelle cinque ore in cui sono rimasto quasi immobile”.
Ma anche per lui la vita, da quel giorno, non sarebbe stata più la stessa: “Ti rendi conto che con un semplice sforzo hai altissime probabilità di salvare la vita a una persona. Chiunque può fare la differenza ed è un grande modo per andare avanti: ti dà una spinta per alzarti dal letto, a per sempre una svolta a una vita che può essere altrimenti anonima. Trovarti a poter evitare a una persona di morire, averne il destino in mano non è una cosa semplice da affrontare, soprattutto a vent’anni”.
I donatori di midollo sono eroi senza mantello e superpoteri, piccoli fantasmi come Paolo, tornato ai suoi studi di Fisica, alla sua passione per il cinema. Un eroe che non incrocerà mai quello sguardo riconoscente che si trova chissà dove in Italia: “Chi mi piacerebbe aver aiutato? Non cambia molto: sarebbe bello aver restituito un figlio all’abbraccio dei genitori, ma anche un genitore ai baci dei suoi bambini. Sì, è stato davvero un piacere”.