E ora Brindisi si riprenda il “suo” porto

Il sequestro penale di tutti varchi di accesso al porto, di strade e ponticelli, e dell’intera recinzione di security realizzata dall’Authority, chiesto e ottenuto dalla Procura sulla scorta delle indagini condotte dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza, è l’ennesima prova che a Brindisi solo l’intervento della magistratura può interrompere la tendenza di chi gestisce gli enti locali in modo borderline.
Non ci preme in questa sede ricordare le possibili responsabilità penali che sembrano andarsi via via delineando nella corposa inchiesta condotta dal pm Raffaele Casto e dalle Fiamme gialle, anche se la conferma in toto dei sequestri operati il 19 novembre scorso da parte del Tribunale del Riesame fornisce un avallo importante e probabilmente decisivo alla teoria accusatoria.
L’iter giudiziario seguirà la sua strada e questa potrebbe essere lunga e tortuosa, tra aule penali e Corte dei Conti.

La domanda che invece ci poniamo è un’altra: in che modo la città potrà ricevere un ristoro adeguato ai danni che una gestione così sconsiderata del porto negli ultimi vent’anni ha provocato alla crescita di Brindisi e all’economia dei suoi abitanti? Perché eventuali condanne penali o amministrative contribuiranno indubbiamente a ripristinare la legalità e a fare giustizia, ma non restituiranno mai alla città ciò che in questi decenni le è stato strappato in termini di mancato sviluppo e di crescita, proprio nel suo patrimonio più prezioso e unico: il porto.
L’inchiesta penale ha un suo sottotesto ridondante, un leit-motiv che non può essere ignorato e anzi deve essere considerato il punto di partenza per capitalizzare l’input fornito dagli investigatori: il porto, per vent’anni, è stato gestito come un principato autonomo, del tutto avulso dalla città, nei cui uffici con affaccio sul mare sono stati affidati appalti, decise strategie, nominati o cacciati dirigenti, funzionari e tecnici, senza mai tener conto del fatto che ogni decisione andava a incidere su altri enti e soprattutto sulla città. Non c’è stata mai alcuna apertura all’esterno, nessuna condivisione. Il caso più eclatante è rappresentato da quella recinzione orribile che resterà a lungo l’emblema di quanto una zona meravigliosa, con un panorama invidiabile, possa essere deturpata in modo temiamo irrimediabile.

In molte pagine degli atti penali si fa riferimento all’assolutismo di cui si saerebbero sentiti investiti presidenti, commissari e dirigenti dell’Authority, al ruolo pressoché nullo del Comitato portuale, all’assenza di qualsiasi comunicazione costruttiva con sindaci e amministratori. E se la responsabilità principale ricade ovviamente su chi ha gestito il porto in maniera autoreferenziale (arrivando persino, come si legge nelle carte processuali, a bypassare il Comune sulle autorizzazioni a costruire), non vanno taciute le gravi colpe di chi – a capo degli altri enti locali – in tutti questi anni si è voltato dall’altra parte, come se il porto fosse una questione a se stante, quasi che il destino di questa città non fosse legato a doppia mandata a quello del tratto di mare che ha reso Brindisi famosa nei millenni e cui è legata in maniera viscerale.
L’indagine penale è la solita manna dal cielo che va a scoperchiare magagne e mancanze, ma ora deve diventare anche il chiavistello per restituire un ruolo determinante alla città per essere partecipe del proprio futuro, proprio attraverso il porto.

Brindisi ha un sindaco e un governo cittadino che in passato hanno fatto della tutela del nostro patrimonio naturale la propria bandiera. Ora hanno la possibilità di dimostrare di saper passare dagli slogan urlati con striscioni e megafoni alla realizzazione di obiettivi concreti. L’Autorità portuale, carte processuali alla mano, ha dimostrato di aver assunto decisioni sbagliate o persino perseguibili penalmente, come quella della realizzazione della recinzione di via del Mare che insiste proprio sul territorio comunale e non demaniale.
Il sindaco Riccardo Rossi ha in questo momento l’opportunità e il dovere di assumere un ruolo centrale nel nuovo corso perché le prerogative di autonomia pur garantite dalla legge all’Authority non la facciano più sentire nelle condizioni di agire senza tener conto degli interessi della città e dei brindisini, ma in un’ottica di massima collaborazione e trasparenza nella quale il Comune deve avere un ruolo determinante.
E c’è già qualcosa che Rossi potrebbe chiedere come parziale ristoro alla città e non è un obiettivo di poco conto. Nel suo autoreferenziale progetto di messa in sicurezza del porto, l’Authority ha deciso di togliere per sempre la possibilità ai brindisini di accedere a Villa Monticelli, alla spiaggia di Sant’Apollinare e all’area archeologica di Punta delle Terrare, sprangate dietro alla nuova recinzione in corten. Non sono posti qualunque ma pilastri della storia di questa città. Punta delle Terrare è il luogo del primo insediamento umano documentato, in pratica il posto in cui Brindisi ha avuto origine. In quei promontori sono stati effettuati scavi di portata internazionale e il lavoro degli archeologi non è mai stato completato. La spiaggia di Sant’Apollinare e Villa Monticelli rappresentano invece i baluardi della storia brindisina più recente, quella dei primi settant’anni del ventesimo secolo: quell’arenile e l’abitazione che lo sovrasta compaiono in centinaia di cartoline e di foto d’epoca, al pari dei principali monumenti della città.

Pochi in questi anni hanno continuato a battersi perché questo patrimonio non andasse cancellato per sempre: i “No al Carbone”, protagonisti di una campagna serrata e continua per la restituzione di Sant’Apollinare alla città; e il Gruppo Archeo Brindisi che non ha smesso un giorno di ricordare quanto sia folle cancellare il luogo che testimonia la nascita della civiltà brindisina.
In realtà quando l’Autorità portuale acquistò Villa Monticelli i progetti erano diversi: si parlava della creazione di un grande museo che avrebbe valorizzato l’area archeologica e che si sarebbe affacciato sulla storica spiaggia. Poi i progetti sono cambiati quasi in silenzio: vorrebbero cancellare Sant’Apollinare per creare un’altra enorme banchina in cemento, mentre la villa è stata abbandonata al suo destino, senza alcun intervento, neanche per garantirne la staticità. Gli scavi archeologici sono stati sommersi da tonnellate di rifiuti e sono scomparsi.
Ora c’è l’opportunità fornita dalla magistratura. L’area è stata posta sotto sequestro e l’Autorità portuale sarà costretta a bonificarla e a riportarla alla situazione originaria. Passerà del tempo prima che tutto ciò possa essere tecnicamente effettuato. Ma intanto la città, rappresentata dal suo sindaco, può pretendere che – pur fornendo tutte le garanzie di sicurezza previste per i porti dalle nuove normative internazionali – il sito di Punta delle Terrare (che comprende la villa e la spiaggia) torni nella disponibilità dei brindisini.
Ovviamente con un progetto che consenta di trasformare questo spicchio di terra, davanti al quale ogni nave o barca che entra nel porto transita obbligatoriamente, nel biglietto da visita della città. Il punto in cui tutto è iniziato, il punto da cui tutto può ricominciare.