I sogni di Sara e quell’ultimo turno di notte

Sara Viva Sorge, infermiera di 26 anni, ha perso la vita in un incidente stradale mentre rientrava a casa, a San Vito dei Normanni, dopo un turno di notte nella struttura neuroriabilitativa di Ceglie Messapica in cui lavorava da soli 20 giorni.

di GIANMARCO DI NAPOLI per il7 Magazine

Che freddo fa, pizzica il viso. Però che liberazione togliere quella mascherina, una notte intera è lunga, ma mi sono già abituata. Un’infermiera nasce con la mascherina. Le mie amiche mi prendevano in giro già quando mi sono iscritta a Scienze infermieristiche a Roma: le fossette, Sara, come farai con la mascherina che poi se non si vedono le fossette? E quelle fossette ti illuminano il volto, ti fanno brillare gli occhi. E io arrossivo, i complimenti mi imbarazzano. Però quante risate ci siamo fatte. E lo sapevano bene che io volevo fare l’infermiera, nient’altro. E anche che volevo lavorare, ma vicino casa mia. Sì Roma è bella, meravigliosa. Ma San Vito è il mio paese, vuoi mettere? Mi mancavano papà e mamma, pensavo a nonna Maria, ai cugini, agli zii. Mi mancava la mia stanzetta, persino il rumore della tenda di plastica davanti alla porta di casa che gratta sul muro ogni volta che entri: quella è la mia coperta di Linus, tra il mondo di fuori e il calore della mia famiglia. Se le sognano a Roma le «rezze» alla porta, le mie colleghe là neanche capivano cosa fossero. Va be’, poi c’è Flavio che sta a Milano, è un genio il mio fratellone. Lui mi manca sempre.
Pizzica davvero questo freddo, ma ho fatto bene a fermarmi qui, nel parcheggio. Avevo bisogno di prendere una boccata d’aria, anche se è gelata, anche se è buio, anche se ho sonno. Questo posto mi illumina il cuore, si accende più di quella scritta blu sopra l’ingresso: che dice “Fondazione San Raffaele”. Quando mi hanno detto che mi prendevano avrei voluto saltare, urlare, gridare, piangere, ridere, non so quante emozioni mi sono entrate come un treno nella testa o sulla pelle, e quanti brividi mi hanno attraversato la schiena. E per un po’ non ero più Sara la seria, quella compassata, un po’ timida. Sì, volevo urlare e dire al mondo ce l’ho fatta. E poi i baci dei miei genitori, e quelli di Andrea, e il mio smartphone che era impazzito.
Sono passate solo tre settimane e sembra una vita.

E poi il camice bianco. Sì all’università lo avevo messo, ma vuoi mettere quando te ne danno uno dopo che hai firmato il tuo primo contratto? Cavolo, quanto è bello questo camice. Mi ci sono avvolta dentro, ho allungato le mani dietro la schiena perché volevo abbracciarmi insieme a lui. Poi mi hanno dato il cartellino con il mio nome, il badge per l’ingresso. E soprattutto la mia destinazione: Sara Viva Sorge, reparto di Neuroriabilitazione, corsia A, San Raffaele, Ceglie Messapica. Il primo lavoro in un ospedale così importante e a due passi da casa. Sì perché sono soltanto 20 chilometri, una passeggiata. Lo so, papà mi dice sempre stai attenta ché la strada è tutta piena di curve, quando faccio il turno di notte lo trovo ad aspettarmi dietro la tenda. Anche stamattina di sicuro sta già sveglio, e la mamma avrà messo la moka sul fuoco, e mi chiederà com’è andata e poi si preoccuperanno che mi metta a dormire, perché è la seconda notte consecutiva che sono di turno.
Mi chiederanno com’è lavorare di notte. E io gli risponderò che, chissà perché, negli ospedali tutto accade sempre di notte. Ma non mi lamento, eh. Ci sono cose che non ti insegnano all’università, che le impari in corsia. Quelle otto ore su e giù per i corridoi, un conto è studiarle e un altro è viverle: con le luci soffuse come quelle negli aerei di notte, quando sei attenta a ogni respiro strano, a ogni piccolo segnale d’allarme delle macchine. Di notte anche il silenzio in un letto fa paura. E tu sei sola, una specie di angelo sui pazienti che dormono.

Il turno di notte è tornare nella saletta degli operatori dopo la ronda e sprofondare su una poltrona, una brandina o semplicemente una sedia che in quel momento ti sembrano il tuo spinotto del caricabatteria, con il thermos pieno di caffè a cui ti aggrappi per drenare energia. Non li conosco ancora bene i miei colleghi, sono passate solo tre settimane, ma mi sono già simpatici: tra noi è già “riposa un altro po’, vado io a fare il giro”, e mentre controlli nelle camere c’è sempre quel paziente sveglio che ti chiama e comincia a raccontarti di sé, della sua vita, della sua famiglia che il Covid tiene ancora più lontana. E quel paziente non è mai un numero, né una cartella clinica, ma è tuo padre, tua madre, l’aziano nonno. E poi ci sono tanti ragazzi. E nessuno sta bene qui dentro, alcuni hanno bisogno solo di calore.
Il turno di notte è quando tra una ronda e l’altra conosci meglio il tuo collega e quello scoppia a ridere perché sei una novellina e si rende conto che lo stai sentendo ma non lo ascolti davvero, perché ti dorme il cuore per la stanchezza.

Il turno di notte sono quelle maledette ultime due ore di turno che non passano mai e l’orologio sembra che si è fermato. Eppure stai già pensando che l’alba è troppo bella per restare in casa e allora farai una doccia e andrai a fare colazione con la tua amica. E ti programmi la visita alla nonna. Perché quando capisci qual è la sofferenza qua dentro ti rendi conto di quanto sei fortunata là fuori. E io sono felice.
E’ il turno dello “smonto notte”, del cornetto caldo e l’ennesimo caffè, portati da chi ti dà il cambio, il passaggio di consegne mentre togli la divisa e rimetti gli abiti “civili”, che ti aspettano negli armadietti. Un saluto assonnato ai colleghi che ti dicono “buon riposo, alla prossima”, un cenno a chi ha condiviso con te la notte e può capire il sonno che hai. Proprio come stamattina.

Ora ho proprio freddo, anzi metto in moto l’auto e accendo il riscaldamento a palla, i vetri sono appannati per l’umido. E la radio a tutto volume. No, non perché ho paura di addormentarmi, ma la musica mi fa compagnia. Tra qualche mese sarà tutta un’altra cosa: alle 6, in primavera, c’è già il sole e l’aria al mattino profuma, la strada sembrerà pure più breve. Venti chilometri passano in fretta. Poi il 26 sarà il mio compleanno, devo festeggiare alla grande. Spero che ci sia anche Flavio. Quest’anno tanto offro io, con il primo stipendio.
Ecco, si vedono già le luci del paese. Appena arrivo me li bacio, mamma e papà.