Il genio visionario morto da solo all’interno nella sua opera più incompresa

di Roberta Grassi per il7 Magazine

Il confine tra genio e follia è sempre labile. Può sembrare pazzo colui che ogni notte raccoglie ferraglie e le accumula sulla sua abitazione. Ma se si scoprisse che in realtà si tratta di un artista visionario, di un pittore e scultore citato nelle enciclopedie, si potrebbe pensare a Picasso o a Van Gogh. Qui si parla, invece, di Raffaele Leone, classe 1948, morto da solo lunedì scorso nella sua casa di ferraglia a San Pietro Vernotico. Non era un clochard, come molti ritenevano, in paese. Ma un uomo di gran cultura, capace di discettare di filosofia, e di realizzare opere con pennello e colori, prima di dedicarsi all’accumulo come forma di dissenso. Come stile di vita. Ed era citato nelle enciclopedie.
In via Lecce, la stessa strada dell’ospedale Ninetto Melli, c’è sempre un via vai di gente. Auto, pedoni e gatti, moltissimi gatti. Le persone passano indifferenti, non si voltano neppure più. Ormai quell’incredibile museo del ferrovecchio, una catasta di tubi, aste, confezioni in latta, pinne, tastiere e calcolatrici, passa inosservato nonostante sia davvero singolare, qualcosa di unico, una specie di santuario della Pop-art (tanto per dirne una, da profani) che, se si trovasse a Bruxelles o nei sobborghi londinesi, probabilmente accoglierebbe migliaia di visitatori. Paganti.
Ma siamo a San Pietro Vernotico, provincia di Brindisi. E quell’immobile è stato oggetto di numerose battaglie, per la demolizione. C’è perfino un’ordinanza, emessa dal Comune molti anni fa. Ma non è stata mai eseguita. Perché, in fondo, nonostante il disagio visivo e i problemi di vicinato, girava voce che il padrone di casa fosse un artista. Qualcuno lo aveva citato perfino in classe, raccontano, durante l’ora di storia dell’arte.
Di testimonianze ce ne sono moltissime e consentono di ricostruire una storia incredibile.
Raffaele Leone, passa la sua adolescenza a San Pietro. Lo ricordano brillante, estroso, fuori dagli schemi nella migliore delle accezioni possibile. Poi va via. Lascia i genitori e la sorella Liliana per trasferirsi in Svizzera. Vuole fare il regista, ha talento da vendere come pittore. Si innamora, si trasferisce a New York e inizia a usare il pennello. Studia, espone a Parigi, a Grenoble, a Milano in una mostra presentata da Gianni Brera. Poi, nel 1984 decide di tornare a casa per ricongiungersi ai suoi che non stanno così bene. E ci rimane.
Qui inizia la seconda parte della sua tribolata esistenza. Solo, per scelta. Eccezion fatta per i suoi due o tre amici. Non vuole il cellulare, non si cura di luce, acqua, gas. L’importante è riuscire a comprare le tele, i colori per continuare a dipingere. Ce la fa, per un po’.
Si crea spontaneamente al suo fianco una rete di supporto, di rara ammirazione. Un sindacalista lo aiuta a percepire una pensione minima. L’ex comandante dei vigili urbani, Tito Ragusa, ci va ogni giorno a prendere il caffé. E’ lui ad accorgersi di una assenza sospetta, il 30 novembre, e a dare l’allarme. Ma questa è un altra storia.

C’è il suo amico, Oronzo Roberto Conte, che ne stima il talento e da sempre ne condivide ogni illuminazione. E’ lui che espone e conserva, a casa sua, alcune delle sue opere. E’ lui il depositario di ricordi di vita. Viaggi, ricerche.
Commosso ne racconta le gesta. E’ stato fra i pochi a partecipare al funerale, una cerimonia ristrettissima (anche per via delle norme Covid) che si è tenuta alle 8 nella chiesetta del cimitero e di cui si sono fatti carico i parenti stretti che ora si vorranno occupare anche della messa in sicurezza della installazione di via Lecce.
Non c’è bisogno di essere esperti per comprendere quanto la passione di Leone fosse predominante nella sua esistenza. Aveva un valore assoluto.
“Era un pittore di valore, non è stato compreso. Ma aveva studiato tanto ed era stato apprezzato ovunque nel mondo” racconta Conte, che custodisce gelosamente anche alcuni scatti, fra i pochi che lo ritraggono, che documentano anche il legame di amicizia che li univa. La sua compagna aveva recensito una scultura “La tessitrice”.
Un post su facebook glielo ha dedicato Massimo Marangio, anche lui pittore e docente al Liceo artistico di Lecce.
“Finisce qui la vita del sognatore Raffaele Leone, nel suo “ready made” che quasi gli ha impedito la sua ultima uscita. Molti lo hanno conosciuto come colui che raccoglieva rottami per accatastarli sulla ringhiera di casa. Doveva essergli rimasta nel cuore quell’America che molti anni fa lo aveva accolto come artista, le lattonerie accatastate lungo le inferriate a urlare il disagio di una società decadente. Quando tornò in Italia fece una mostra a Milano presentata dal giornalista Gianni Brera ed ebbe diverse proposte ammiccanti. Tornò a S. Pietro per amore dei suoi cari” è il suo ricordo.

Rispetto anche da parte del sindaco, Pasquale Rizzo, che non esclude che possano esservi iniziative in memoria e in sostegno di quanto da Leone è stato lasciato su questa terra.
Ora la fine. Leone aveva avuto bisogno di cure, ma nonostante ciò aveva continuato a costruire mondi incredibili fatti di latta. Ogni notte usciva di casa, racimolava ferraglie e le sistemava nel giardino e sul tetto della sua villetta, una come tante, nel cuore del paese. Disordinate, ma in realtà con un rigore logico che è evidente anche ai micetti che vi si aggirano a proprio agio, saltando qui e lì.
Tutto estremamente colorato con lo spray. Rosa, giallo, verde. In quel tempio di ferraglie, per nulla casuale, che pensava un giorno gli sarebbe caduto addosso, l’artista è morto. Cause naturali, dice il referto, è sicuramente così.
Lunedì mattina alle 11 sul posto sono arrivati i pompieri, perché non c’era altro modo per entrare in casa. Si sono fatti largo fra gli strani oggetti depositati fuori. Un copriwater, un aspirapolvere in disuso. Un triciclo rosso. Hanno aperto la porta e lì dentro, nel suo atelier, c’era lui. Ormai senza vita. I soccorsi prestati dal personale del 11 sono stati inutili.
“E’ morto l’artista”, hanno iniziato a dire in giro. Il clochard. Il vecchietto che andava a portare il giornale al bar, per avere un caffè. Ma che era un pozzo di cultura, se solo qualcuno si soffermava a parlare di qualcosa di interessante. E’ morto sepolto dalla sua opera più imponente, che nessuno era riuscito a fargli disinstallare. Un mausoleo che gli è sopravvissuto. C’è chi dice che è terribile, che è una bruttura mai vista. Qualcosa di decadente sporco, lontano dal decoro urbano. C’è chi ne coglie il messaggio stravagante e gli attribuisce una portata di genialità tale da non essere comprensibile, come accade sempre, al mondo contemporaneo.
Di sicuro si tratta di un castello in grado di suscitare emozioni di diverso tipo, ma pur sempre emozioni. Disprezzo o ammirazione. Fa parlare di sé, come è stato per il water d’oro di Maurizio Cattelan.
Come può accadere quando l’estro di Banksy “imbratta” i muri di una città. Sono paragoni sproporzionati? Sicuramente sì. Ma Leone era un artista. Il suo nome era riportato sull’enciclopedia. Ma è incredibilmente morto da barbone.