«Il mio papa’ ammazzato 41 anni fa: trovate i suoi assassini»

Un inseguimento per furto terminato con un conflitto a fuoco tra due guardie giurate, una delle quali colpita a morte, e quattro o più delinquenti (tra cui, con ogni probabilità, un esponente di spicco del contrabbando brindisino degli anni Ottanta). Un procedimento penale mai sfociato in un processo. L’istanza alla Procura di Brindisi, da parte della figlia della vittima, affinché quelle indagini frammentarie e lacunose, conclusesi con un provvedimento di archiviazione, siano riaperte per fare piena luce su quanto accaduto.
Anna Grazia Pino aveva soltanto dieci anni quando suo padre, Floriano Enzo Pino, guardia giurata dell’istituto di vigilanza privata Veliapol con il grado di brigadiere, fu ucciso da ignoti rapinatori nel pieno centro abitato di Mesagne mentre, con il suo collega Salvatore Bernardo, si era messo sulle tracce di un camion contenente 50 quintali di carne, rubato dal deposito dell’azienda “Perrone” a Carmiano e intercettato proprio nella città messapica.
Era la notte del 25 luglio 1979 e tutt’oggi, a distanza di più di quattro decenni, la famiglia non conosce l’identità degli assassini del brigadiere Pino: ecco perché la signora Anna Grazia, affidandosi all’avvocato Giuseppe Cipressa del Foro di Lecce, nel febbraio del 2019 ha presentato alla Procura di Brindisi un’istanza chiedendo che si torni a indagare sugli aspetti di quella vicenda rimasti oscuri e siano finalmente identificati e processati i colpevoli dell’omicidio di suo padre. In effetti, a seguito del deposito di tale istanza, le indagini sono riprese: a giugno di quest’anno, il PM Giovanni Marino ha disposto l’ascolto, per delega alla polizia giudiziaria, della figlia della vittima. L’auspicio della signora è che si proceda, soprattutto approfondendo le altre testimonianze.
Quando fu assassinato nel conflitto a fuoco nel quale restò coinvolto insieme al suo collega, Floriano Enzo Pino era appena quarantunenne e lavorava come caposervizio della Veliapol per i comuni di Monteroni, Arnesano, Magliano e Carmiano. Lasciò una vedova e due orfani, una di dieci anni e uno di tredici. “Mio padre era una persona solare, amorevole e generosa”, ricorda con affetto la figlia Anna Grazia. “Non avevamo grandi disponibilità, ma, nel suo piccolo, amava viziarci con piccoli pensierini e regalini. Per lui la nostra famiglia era tutto. Era presente in ogni cosa, malgrado gli impegni di lavoro lo limitassero tantissimo. Però per noi la domenica era sacra, o la mattina o il pomeriggio stavamo tutti e quattro insieme. Mia madre è rimasta legata al suo ricordo per tutta la vita, non si è mai risposata. La mia richiesta di riprendere ad indagare ha lo scopo di rendere giustizia ad un uomo per bene”.
Le indagini sull’omicidio Pino furono avviate immediatamente nei confronti di ignoti ed affidate al sostituto procuratore della Procura di Brindisi Riccardo Dibitonto.
L’assassinio dovrebbe essere avvenuto tra le quattro e le quattro e mezza del mattino.
Nella notte del 25 luglio 1979, il brigadiere Pino e il metronotte Salvatore Bernardo erano di pattuglia insieme, quando alla centrale operativa della Veliapol Srl arrivò la chiamata con la quale si denunciò l’avvenuto furto di un autocarro da un magazzino sito in Carmiano, di proprietà del Sig. Piero Perrone. Il mezzo era da poco rientrato dal Nord Italia con un carico consistente di carni macellate. Le due guardie giurate, allertate dalla centrale operativa o, più probabilmente, dalla pattuglia che era intervenuta sul luogo del furto, si misero immediatamente alla ricerca dell’automezzo rubato, seguendo in particolare le tracce lasciate sull’asfalto dalle gocce d’acqua cadute dal sistema di refrigerazione del mezzo. Intercettarono il camion a Mesagne, all’incrocio tra quella che i mesagnesi colloquialmente chiamano via San Vito (in realtà trattasi di via Tenente Roberto Antonucci) e la via Udine (dove attualmente ha sede il palazzetto dello sport). Il mezzo rubato era fermo in quel punto giacché era rimasto bloccato dal passaggio a livello della limitrofa stazione ferroviaria di Mesagne, che era chiuso. Scesi dall’auto di pattuglia, i metronotte furono investiti dalla raffica di colpi di arma da fuoco esplosi contro di loro dall’interno della cabina dell’automezzo rubato. Immediatamente dopo aver sparato, gli uomini (quattro, secondo le quanto riferito dal collega di Pino) fuggirono nelle campagne circostanti, in un primo momento a piedi, poi a bordo di un’automobile Fiat 124, abbandonata successivamente in agro di Mesagne e infine su di una Fiat 124 bianca. Le due guardie giurate, prontamente soccorse, furono trasportate in ospedale. Il Brigadiere Pino, tuttavia, a causa della gravità delle ferite riportate, morì durante il tragitto. Incrociando una serie di testimonianze, emersero i nomi di cinque persone nei cui confronti, secondo l’ultimo atto di indagine dei carabinieri, furono riconosciuti “gravi indizi di reità”. Si tratta di pregiudicati brindisini con precedenti specifici (per reati contro il patrimonio commessi con violenza), che oggi hanno tra i 65 e gli 80 anni: il nome di maggior peso è quello di un contrabbandiere che a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta acquisì una posizione di rilievo nella criminalità della provincia. Come da questi gravi indizi di reità si sia giunti ad un provvedimento di archiviazione, è quanto la signora Anna Grazia Pino lamenta nella richiesta di riapertura delle indagini curata dall’avvocato Giuseppe Cipressa, che ha il merito di avere ricostruito pazientemente gli eventi di quella notte e le criticità di quel procedimento, malgrado le oggettive difficoltà dovute al passare del tempo e alla lacunosità degli atti e dei documenti a disposizione della sua assistita.
“Nella ricostruzione dei fatti, così come emerge dagli atti in nostro possesso, ci sono moltissime cose che non tornano e sulle quali auspichiamo un approfondimento istruttorio”, afferma Cipressa. “Ne elenco qualcuna, anche se gli aspetti sui quali chiediamo alla magistratura e agli inquirenti di tornare a indagare sono veramente tanti. Prima di tutto, bisognerebbe capire dove si trovino il referto autoptico e il provvedimento di archiviazione. Anzi, per essere più precisi, la Procura sostiene che l’intero fascicolo non si trovi, per cui siamo stati noi a consegnare le copie degli atti che avevamo. Purtroppo, però, non disponiamo né dell’esito dell’autopsia a cui il padre della mia assistita fu sottoposto dal perito, il professor Bruno Altamura, all’epoca in servizio presso il dipartimento di medicina legale dell’Università degli Studi di Bari, né del provvedimento con quale fu disposta l’archiviazione. Allo stato, ci troviamo nella situazione paradossale in cui sappiamo che il procedimento è stato archiviato, ma non ne conosciamo i motivi. In secondo luogo, quello che ci colpisce sono le possibili omissioni e le sicure incongruenze che si riscontrano nelle deposizioni di alcuni dei testimoni, tra cui: il metronotte collega del Pino; il venditore ambulante che dormiva nella sua baracca posta sul lato opposto della via Antonucci e che, nell’imminenza del fatto, fu svegliato dai colpi esplosi; i colleghi della pattuglia intervenuta per prima nel deposito dell’azienda Perrone; il proprietario stesso dell’azienda. Per quanto riguarda il collega del Pino, inoltre, aggiungo che egli dichiarò di avere visto in volto almeno due dei rapinatori. Eppure, dagli atti delle indagini preliminari espletate, non risulta che gli fu mai chiesto di tentare di effettuare un riconoscimento, nemmeno fotografico, dei sospetti che erano stati individuati a seguito della descrizione da lui stesso fornita e a seguito delle risultanze delle ulteriori testimonianze. E ancora: non risulta, dai documenti che abbiamo, che sia mai stata effettuata una perizia dattiloscopica dell’impronta di mano ritrovata sulla macchina con cui verosimilmente gli assassini, in base a quanto riferito dai testimoni, si erano allontanati. Oltretutto, ci insospettisce anche il fatto che la pattuglia Veliapol che scoprì il furto informò dello stesso un’altra pattuglia di vigilantes (lontana dai luoghi del delitto!), anziché avvertire immediatamente la centrale operativa e mettersi immediatamente all’inseguimento dell’automezzo rubato. Insomma, noi riteniamo che dagli atti di indagine, anche quei pochi che siamo riusciti a reperire, emergano senza dubbio numerosi elementi probatori che già di per sé sarebbero stati idonei a sostenere l’accusa in giudizio nei confronti dei soggetti che furono identificati dagli inquirenti quali probabili autori dell’omicidio del Pino. Ecco perché è assolutamente necessario che le indagini procedano”, conclude l’avvocato Cipressa.
All’epoca, alla famiglia fu consigliato di farsi seguire dall’avvocato della Veliapol, ma, alla luce dei fatti, si trattò di una scelta infelice. La signora Anna Grazia Pino lamenta di non essere mai stata aggiornata sullo stato delle indagini, nemmeno quando, una volta cresciuta, si è recata personalmente a chiedere notizie nello studio legale e presso gli uffici dell’istituto di vigilanza: “La morte di mio padre è stata un chiodo fisso per tutta la mia vita, ho sempre voluto approfondire e capire. Ho più volte chiesto la documentazione relativa alle indagini, ma ogni volta mi è stato detto che non c’erano documenti da leggere. Le sembra possibile? Aggiungo anche che purtroppo noi abbiamo percepito soltanto la pensione devoluta a mia madre in quanto erede di vittima di infortunio mortale sul lavoro. Avremmo avuto diritto anche ad altro, ma l’assicurazione privata a cui si era affidato mio padre è finita in liquidazione coatta amministrativa, quindi quelle somme sono andate perse”.
Della morte della guardia giurata la sua famiglia fu avvertita alle 7 del mattino dalla moglie del direttore dell’istituto privato di vigilanza per cui lavorava, arrivata a casa Pino insieme ad un collega del brigadiere: “All’inizio ci parlarono genericamente di un incidente, sapemmo la verità qualche ora dopo. Io accompagnai da mia zia il collega di mio padre, che le spiegò come si erano effettivamente svolti i fatti. O meglio, le riferì quelle poche notizie di cui era a conoscenza. Erano passate poche ore e ancora la situazione non era del tutto chiara. D’altronde, non è chiara nemmeno adesso, figurarsi se poteva esserlo a distanza di così poco tempo dall’omicidio. In ogni caso, io origliai quella conversazione e seppi cos’era successo. Fui io stessa a raccontarlo a mia madre e a mio fratello, una volta rientrata a casa mia. Fu un momento molto difficile, non ho mai dimenticato l’angoscia di quelle ore”.
Quando parla della mamma, la voce della signora Anna Grazia si incrina: “Mia madre è molto preoccupata per me, non condivide la mia decisione di chiedere la riapertura delle indagini sulla morte di mio padre. Ha paura che io mi esponga troppo e che possa rischiare ritorsioni. In fondo la capisco, ha ottant’anni, ha già pianto un morto in famiglia, non sopporterebbe di piangerne un’altra. Cerco di non raccontarle i dettagli, perché, nonostante siano passati quarant’anni, sta ancora molto male al ricordo di quella notte. All’inizio era proprio contraria all’idea che io mi rivolgessi ad un avvocato per cercare di fare luce sull’evento che ha cambiato per sempre le nostre vite. Devo ringraziare alcuni parenti che sono intervenuti chiedendole di non ostacolarmi in questa mia necessità di comprendere cosa sia davvero successo. La stessa cosa vale per mio fratello: è una persona molto riservata, quindi preferisce non comparire. Ma alla fine mi ha detto che, se davvero per me la ricerca della verità è così importante, allora devo andare avanti”.
Un episodio inquietante, accaduto circa tre anni dopo la morte del brigadiere Pino, rende ancora più plausibile l’ipotesi che, come dice la signora Anna Grazia, “qualcuno ha nascosto qualcosa”: “Una mattina mia madre trovò una lettera che era stata fatta passare sotto la porta di ingresso della nostra casa. Non c’era francobollo, quindi non era stata spedita. Qualcuno l’aveva messa lì. La persona che l’aveva scritta era il figlio di un macellaio. Diceva che suo padre, in punto di morte, gli aveva confidato la verità sull’omicidio di Floriano Enzo Pino, facendo persino i nomi dei presunti assassini. Immediatamente mia madre contattò i vertici della Veliapol. Le fu detto che la stessa lettera era arrivata anche all’istituto di vigilanza e le fu chiesto di consegnarla loro e di tacere. Mia madre lo fece. Non ne abbiamo più saputo nulla, anche perché erano i primi anni Ottanta e non avemmo la possibilità di fotocopiarla. Negli anni successivi, tutte le volte che abbiamo chiesto se quei nomi fossero mai stati presi in considerazione e se si stesse indagando su quelle persone, ci è stato risposto che la lettera fu depositata in Questura. Ma non ce n’è traccia nel fascicolo delle indagini. E mai nessun inquirente ha chiesto a mia madre, che l’aveva trovata, dettagli o chiarimenti. Tuttora non sappiamo che fine abbia fatto”. L’episodio potrebbe apparire come un ulteriore elemento a suffragio del fatto che non tutti i documenti utili alle indagini siano poi effettivamente confluiti del fascicolo o, cosa più grave, potrebbe dimostrare che alcuni documenti siano successivamente scomparsi dal fascicolo per motivi che, come si augurano la figlia della vittima e l’avvocato Cipressa, vanno esplorati e chiariti.
L’ultimo ricordo che la signora Anna Grazia Pino ha del suo papà è quello del film che stava guardando in televisione la sera che uscì da casa per non rientrarvi più: “Quando una donna piange”, titolo che adesso appare tristemente profetico del tragico destino che incombeva su di lei e sulla sua famiglia, al quale, però, non ha alcuna intenzione di soccombere. La conclusione della donna è lapidaria, mentre il suo viso gentile si irrigidisce e il suo sguardo dolce si incupisce: “Cosa mi aspetto da questa indagine? Voglio i nomi degli assassini di mio padre. Voglio sapere perché quei cinque uomini indicati negli atti non sono mai stati sottoposti a un processo. Voglio la verità che ci è stata nascosta per più di quarant’anni”.